Billie Holiday: 'Lady Day', la signora del blues

Cinquantanove anni fa la scomparsa di Billie Holiday

Non si limitava a cantare. Billie Holiday usava la voce come se suonasse uno strumento a fiato. "Cerco di improvvisare come Lester Young, come Louis Armstrong, o qualcun altro che ammiro. Quello che esce fuori è ciò che sento". La signora del blues, la cantante statunitense tra le più grandi interpreti musicali del Novecento, è ancora oggi leggenda e ispirazione per molti artisti. Scomparsa il 17 luglio del '59, con 'Lady Day' il jazz ha scoperto la voce come strumento. Oggi sembrerebbe quasi ovvio, ma allora non era così. Una gardenia bianca tra i capelli, sensuale come la sua voce. Le sue interpretazioni cariche di pathos, come se dietro i suoni e le parole tornassero a galla le troppe sofferenze del passato. Le violenze sessuali da bambina, la prostituzione da adolescente, l’eroina e l’alcol e l'esperienza del carcere. Eleanora Fagan, questo il nome di Billie all'anagrafe, era nata a Filadelfia nel 1915, da genitori non sposati. La ballerina Sarah Julia Fagan e il musicista e suonatore di banjo, Clarence Halliday, noto come Clarence Holiday.

Così Eleonora, che prese il cognome d'arte del padre e il nome in omaggio all'attrice Billie Dove, divenne Billie Holiday. Il padre la lasciò per seguire le orchestre itineranti con cui suonava. La madre, che lavorava come domestica a New York, l'affidò alla cugina che viveva a Baltimora. Trattata male dalla donna, per la cantante furono anni durissimi. A dieci anni fu vittima di violenza sessuale, così raggiunse la madre a New York, e cominciò a procurarsi da vivere prostituendosi in un bordello clandestino di Harlem. Guadagnava qualche soldo in più lavando gli ingressi delle case del quartiere. Non si faceva pagare solo dalla tenutaria del bordello, che in cambio le lasciava ascoltare i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong sul fonografo del salotto. Dopo un blitz della polizia fu arrestata e condannata a quattro mesi di carcere. Rimessa in libertà, per evitare di tornare a prostituirsi cercò lavoro come ballerina in un locale notturno. Non sapeva ballare ma fu assunta immediatamente quando la sentirono cantare.

Dai club di Harlem alla fama, la storia di 'Lady Day'

A quindici anni iniziò la sua carriera nei club di Harlem. In quel periodo le colleghe iniziarono a chiamarla 'Lady'. Perché si rifiutava di ricevere le mance dai clienti prendendo, come facevano tutte, le banconote tra le cosce. Nel '36 cominciò a incidere col proprio nome per l'etichetta Vocalion. Successivamente lavorò con grandi nomi del jazz come Count Basie, Artie Shaw e Lester Young, al quale fu legata da un intenso rapporto d'amicizia e per il quale coniò il soprannome 'Prez' (il presidente), mentre lui la ribattezzò 'Lady Day'. Con l'aiuto e il supporto di Artie Shaw, fu tra le prime cantanti nere ad esibirsi assieme a musicisti bianchi. Nei locali dove cantava, Billie doveva usare l'ingresso riservato ai neri, e rimanere chiusa in camerino fino all'entrata in scena. Una volta sul palcoscenico, qualsiasi discriminazione scompariva. Lei era 'Lady Day'. All'inizio degli anni Quaranta, con un matrimonio breve andato a rotoli e la morte della madre cadde nel tunnel della droga. La voce iniziò a risentirne, ma ciò non le impedì di realizzare eccellenti incisioni.

Nel '47 apparve nel film-musical 'New Orleans', accanto a Louis Armstrong, e nel film 'La città del jazz'. Poi la tournée in Europa, nel '54, e in Italia una sola volta, nel '58 a Milano, in un teatro di avanspettacolo. Il pubblico, non abituato al jazz, non gradì lo spettacolo e Holiday non poté nemmeno cantare tutti i brani in scaletta. Dopo il quinto pezzo fu fatta tornare in camerino. L'ultimo giorno di permanenza a Milano, fu organizzato dagli appassionati di jazz un concerto 'riparatore' al Gerolamo, in piazza Beccaria. Fu una vera ovazione. Qualche mese dopo la cantante scoprì di essere affetta da cirrosi epatica. Fu l'inizio del precipitare delle sue condizioni di salute. Il 15 marzo del '59, morì il suo vecchio amico Lester Young. I parenti di Young non la fecero cantare al suo funerale, e questo la turbò molto. Quattro mesi dopo, la notizia della morte di Billie Holiday. Da allora, è stata la fonte di ispirazione di numerosi artisti. Da Janis Joplin a Nina Simone, fino a Giorgia.

I tanti omaggi alla signora del blues

Gli omaggi a questa grande interprete di canzoni come 'God Bless the Child', 'Billie’s Blues', 'The man I love', sono stati tantissimi. Diana Ross ha ripercorso la sua storia nel film 'La signora del blues', tratto dalla sua autobiografia. Gli U2 le hanno dedicato 'Angel of Harlem': "Lady Day got diamond eyes, she sees the truth behind the lies" ("Lady Day ha occhi di diamante, vede la verità dietro le bugie"). Poi Lou Reed, che ha intitolato 'Lady Day' una delle sue più intense canzoni, dove emerge un crudo e ironico ritratto femminile, chiaramente ispirato alla leggenda di Billie Holiday. Da sempre omaggiata dalla compianta Amy Winehouse, che nel 2003, nel suo album di esordio, incise una cover della canzone 'There Is No Grater Love'. E ancora, la biografia illustrata dal titolo 'Mister and Lady Day: Billie Holiday and the Dog Who Loved Her', che racconta di uno dei grandi amori della diva del jazz. Il suo cane, un boxer di nome Mister.

Nel volume, i disegni eleganti e mai banali dell’illustratrice Vanessa Brantley Newton sono al servizio della narrazione di Amy Novesky che, senza mai soffermarsi sugli aspetti tragici della vita di Billie Holiday, regala al lettore tanti aneddoti sulla cantante e Mister: dalle passeggiate di notte, alle serate nei più rinomati club jazzisti di Harlem. Infine l'omaggio dello scrittore Stefano Benni, che ha composto e interpretato 'Lady Sings the Blues', graffiante ritratto della cantante. Un inedito, quello dello scrittore, in cui 'Lady Day' torna prepotentemente a raccontare la storia breve, dolorosa ma intensa e unica della sua vita. "E quando tornerete a casa dite, 'Ho sentito cantare un angelo, con le ali di marmo e raso. Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate. Sono la regina di un reame di stracci. Sono la voce del sole sui campi di cotone. Sono la voce nera piena di luce. Sono la lady che canta il blues. Ah, dimenticavo… e mi chiamo Billie, Billie Holiday'".

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Lupin, attacca come un falco e corri come il vento

Il 15 luglio del 1905 il debutto letterario di Lupin

Ladro sì, ma gentiluomo. Sono passati centotredici anni da quando Arsenio Lupin, fece il suo debutto letterario da specialista nell'arte del furto e della seduzione. Abile, audace, ironico, inafferrabile e di padre francese. Le avventure di Arsène Lupin, creato dalla fervida fantasia dello scrittore di Rouen, Maurice Leblanc, iniziarono infatti il 15 luglio del 1905. Sul numero sei della rivista 'Je Sais Tout'. Da allora il suo successo è stato celebrato in film e nel famoso manga Lupin III, presentato come nipote del Lupin francese e protagonista del celebre cartone animato per la tv. Il nome originario era Arsène Lopin, poi mutato in Lupin in seguito alle proteste di un politico francese, omonimo del personaggio. Per definirne la personalità, pare che Leblanc si fosse ispirato alla vita di Marius Jacob, anarchico e ladro geniale. Jacob, attraverso il furto ai danni di ricchi borghesi, si adoperava per finanziare il movimento anarchico francese.

Mosso da motivazioni diverse, Lupin aveva però la stessa 'deontologia'. Rubare per sé ma anche per i più bisognosi e sempre e solo ai più facoltosi. Senza ricorrere mai alla violenza, ma attraverso furti sensazionali e imprese spettacolari. I suoi avversari, l'ispettore Garimard della polizia francese e il detective inglese Herlock Sholmes, personaggio chiaramente ispirato a Sherlock Holmes. Amante delle donne, del gioco, del lusso e chiaramente del denaro. Lupin, figlio di un insegnante di pugilato e di una nobile, ha un notevole senso dello humor. Abile trasformista, capace di truccarsi e travestirsi in un personaggio che ogni volta interpreta alla perfezione. In quel debutto letterario Arsène è abile negli sport, soprattutto nelle arti marziali, possiede doti di prestigiatore. Intelligente e furbo, di grande cultura e eccellente intenditore d'arte.

La seconda vita di Arsène con il cartone animato Lupin III

Il ladro più celebre del mondo, dal motto "Attacca il tuo nemico come un falco e scappa come il vento", è stato trasposto per la prima volta dal mondo letterario a quello cinematografico nel '32. A questa prima pellicola firmata Jack Conway, ne sono seguite altre tre, nel '57, nel '59 e nel 2004. E poi fumetti, serie televisive e d'animazione e anche un videogioco (Sherlock Holmes e il re dei ladri) nel 2007. Ma il personaggio creato dalla penna di Leblanc ha vissuto la sua migliore seconda vita nel famoso manga Lupin III, diventato uno dei cartoni animati più amati al mondo. Lupin terzo è il più grande ladro di sempre, orgoglioso di essere il nipote del famigerato Arsène, ideatore del premio più ambito dai ladri del globo, il Lupin d'oro. Durante le sue rapine, supportato dal suo incredibile entourage, e perennemente in fuga dall'ispettore Koichi Zenigata dell'Interpol. Il legame all'antenato francese è ovvio. Lupin III afferma di aver ricevuto il "primo bagno nelle acque gelide della Senna".

Commette i suoi crimini ed è ricercato in tutto il mondo. Guida solitamente una Mercedes-Benz SSK del '28, ma non disdegna le Fiat 500 e la Morgan del '76. Ama Fujiko Mine (Margot), sebbene lei lo tradisca in continuazione. Allergico al polpo, la sua pistola preferita è una Walther P38, che maneggia con un'abilità inferiore solo a quella di Jigen. Il migliore amico di Lupin, pistolero eccezionale. Taciturno, con un mozzicone spento di sigaretta sempre fra le labbra e una mira infallibile. E ancora Goemon Ishikawa, abile samurai, discendente da un'antica dinastia dedita al furto. Calmo, riflessivo, con uno spiccato senso dell'onore. Diffidente verso le donne, ama solo piatti della cucina tradizionale giapponese. La produzione animata su Lupin III è senza precedenti. Dal suo debutto televisivo nel '71 il successo non è mai venuto meno. Le sue avventure continuano a essere replicate sui canali televisivi e si pubblicano DVD in tutto il mondo. Soprattutto in Giappone Lupin è un vero e proprio cult e le nuove produzioni non sono mai cessate.

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Billy the Kid, storia western di un criminale gentiluomo

Centotrentasette anni fa l'ultima impresa di Billy the Kid

Un angelo fuorilegge. Occhi azzurri, capelli biondi, e una carnagione chiara per nulla scalfita dal sole cocente del selvaggio Far West. Abile pistolero, criminale gentiluomo, agile come un gatto e con due amici inseparabili. La sua pistola e un sombrero messicano che gli incorniciava il viso scavato in un corpo pelle e ossa alto poco più di un metro e settanta. In una parola, Billy the Kid, all'anagrafe Henry McCarty, conosciuto anche come Henry Antrim o William Harrison Bonney. Famoso fuorilegge e allo stesso tempo eroe popolare, Billy, scomparso il 14 luglio del 1881, aveva premuto per la prima volta il grilletto all'età di dodici anni. Per vendicare un insulto che era stato fatto a sua madre. Da allora erano iniziate le scorribande, tra cacciatori di taglie, guerre del bestiame e pistole fumanti nei saloon. Incriminato per una ventina di omicidi, tra furti di bestiame, sparatorie all'ultimo sangue e scommesse.

Le sue peripezie erano diventate leggenda quando nel 1881 il governatore del Nuovo Messico, Lew Wallace, aveva messo una taglia di cinquecento dollari sulla sua testa. Sul Las Vegas Gazette (Las Vegas, Nuovo Messico) ed il New York Sun campeggiava il volto dell'eroe-fuorilegge dagli occhi azzurri e pullulavano storie sulle sue imprese. Era stato così fino al 14 luglio di quell'anno, quando Billy era stato ucciso per mano dell'amico Pat Garrett. Quando si erano incontrati Garret era un barista locale, ex cacciatore di bisonti. Ma poi impegnandosi a ripulire l'area dai rapinatori, era stato eletto sceriffo della Contea di Lincoln nel novembre del 1880. E ai primi di dicembre aveva messo insieme un gruppo di volontari per arrestare McCarty, ora conosciuto solo col nome di Billy the Kid. L'angelo fuorilegge scomparso a soli 21 anni.

Billy detto Bonney, in fuga da New York al Messico

Nato a New York nel 1859, da genitori irlandesi protestanti, il futuro pistolero era rimasto orfano a soli 14 anni. Costretto a trovare lavoro in un hotel, per il direttore quel ragazzo tanto giovane era l'unico che avesse mai lavorato per lui senza rubare nulla. Per i suoi insegnanti McCarty era un adolescente disponibile e generoso. Il 23 settembre 1875 il suo primo 'scontro' con la legge, arrestato per aver nascosto un pacco di vestiti rubati per conto di un uomo che voleva fare uno scherzo alla lavanderia cinese. Ma era riuscito a darsela a gambe due giorni prima che finisse nella prigione della contea, strisciando fuori dal camino. Da quel momento in poi, McCarty fu più o meno un fuggitivo. Aveva trovato lavoro in Arizona come trasportatore civile per il Fort Grant Army Post, con il compito di trasportare i tronchi di legno dal campo dei taglialegna fino alla segheria. Il fabbro del campo, Frank "Ventoso" Cahill, provava piacere nel fare il prepotente con lui. All'ennesimo diverbio, Cahill aveva aggredito McCarty gettandolo a terra. Ma Billy the Kid aveva premuto il grilletto della sua pistola, annientando il nemico.

Di nuovo arrestato, prima che lo sceriffo del posto potesse arrivare, l'angelo fuorilegge era riuscito a fuggire. Aveva iniziato a farsi chiamare William H. Bonney, diretto nella Pecos Valley, Nuovo Messico. Gli Apache gli avevano rubato il cavallo, disavventura che aveva costretto Bonney  a camminare chilometri e chilometri fino alla casa della signora Jones. Arrivato qui in fin di vita, la donna lo aveva salvato e rimesso in salute. E quando si era rimesso in cammino, la signora Jones gli aveva donato uno dei suoi cavalli. Spostatosi nella Contea di Lincoln, era stato assunto come guardiano di mandrie dal banchiere inglese proprietario di un ranch John Tunstall, e dal suo socio, l'avvocato Alexander McSween. In quella contea era in atto la Guerra del bestiame tra i mercanti residenti in città e i possessori di ranch. In quel conflitto, l'omicidio di Tunstall aveva fatto infuriare Bonney e gli altri lavoratori del ranch. Ne erano scaturiti svariati fatti di sangue, e Billy era di nuovo in fuga.

L'ultima corsa del pistolero che correva solo

Nel 1878 l'ex generale dell'Union Army Lew Wallace, nuovo governatore territoriale del Nuovo Messico, aveva proclamato l'amnistia per ogni uomo coinvolto nella guerra della contea di Lincoln. McCarty era scappato nel Texas e Wallace era colpito dalle voci che sostenevano che il ragazzo volesse arrendersi e testimoniare contro gli altri combattenti, se l'amnistia fosse stata estesa anche a lui. Un anno dopo Wallace e McCarty avevano discusso le possibilità dell'affare. Come ci si poteva aspettare, McCarty aveva salutato il governatore con un revolver in una mano e una carabina Winchester nell'altra. Dopo alcuni giorni dall'offerta di Wallace, McCarty aveva accettato di testimoniare in cambio dell'amnistia. Ma l'accordo era saltato per via del procuratore distrettuale che dopo la testimonianza di Billy lo aveva arrestato. Billy, neanche a dirlo, era riuscito ancora a fuggire. A catturarlo nel sonno, tempo dopo, era stato lo sceriffo Pat Garrett.

Lo sceriffo, dopo l'assedio al covo di Billy the Kid e dei suoi, lo aveva invitato a uscire per fare colazione con lui. Invito a cui l'angelo fuorilegge, prima di arrendersi, avrebbe più volte risposto: "Vai all'inferno!". McCarty, imprigionato in attesa del processo, nella città di Mesilla aveva rilasciato non poche interviste, chiedendo al Governatore Wallace clemenza. Per tutta risposta, accusato anche dell'omicidio dello sceriffo Brady, era stato condannato all'impiccagione. Ancora una volta, tra uccisioni di guardie e carambole mortali, Billy era riuscito a fuggire. Dopo essersi tolto i ceppi alle gambe con un'ascia, il giovane fuorilegge aveva cavalcato senza fretta fuori dalla città, cantando. Una canzone liberatoria, ma l'ultima prima di morire in un'imboscata del nemico. A raccontare e romanzare questa storia, svariati film. L'ultimo 'Billy the Kid' nel 2013, ripercorrendo la leggenda di un pistolero che correva solo. "Non sono mai stato il capo di nessuna banda, sono stato sempre e solo Billy".

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Frida Kahlo: "Dipingo i fiori per non farli morire"

Il 13 luglio del '54 la scomparsa di Frida Kahlo

Diceva di dipingere i fiori "per non farli morire", di essere patita degli autoritratti perché "sono la persona che conosco meglio". E pur non sapendo scrivere lettere d'amore, sapeva giocare con i colori e le emozioni come poche creature al mondo. Lei che non dipingeva sogni ma la sua realtà, nonostante il suo accostamento al surrealismo. Sessantaquattro anni fa, il 13 luglio del '54, scompariva Frida Kahlo. Semplicemente Frida, la pittrice messicana volata via a soli 47 anni. Una vera icona pop diventata celebre oltre l'arte. Quell'arte che ha rappresentato per lei una finestra sul mondo, un antidoto alla solitudine dopo che a diciotto anni un tragico incidente aveva cambiato per sempre il corso della sua vita. Tornando a casa da scuola, salita su un autobus con il fidanzato Alejandro, era rimasta schiacciata nel violento scontro con un tram. "Il corrimano dell'autobus mi trafisse come la spada trafigge un toro", racconterà poi dell'incidente che le aveva spezzato la colonna vertebrale e l'aveva costretta a subire oltre trenta operazioni chirurgiche.

Allora Frida studiava per diventare medico, ma aveva dovuto abituarsi a una nuova travagliata esistenza. Costretta ad anni di riposo nel letto di casa, col busto ingessato, aveva iniziato a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere. Il suo primo autoritratto lo aveva donato al suo amore, Alejandro. Da qui la scelta dei genitori di regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto, in modo che potesse vedersi, e dei colori. Autoritratto dopo autoritratto, il mondo di Frida veniva fuori in tutte le sue emozioni. La donna coi baffi e le sopracciglia pesanti, quasi ali di corvo pronte a volteggiare sullo sguardo profondo. La donna che si veste di colori e fiori, nonostante il dolore fisico e la solitudine. Il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato è stata una caratteristica essenziale della sua arte. Che ha creato visioni del corpo femminile non più distorto da uno sguardo maschile. E ha saputo raccontare e difendere il suo popolo attraverso la sua arte, facendovi confluire il folklore messicano.

Stile naïf e identità messicana

La carriera artistica di Frida era iniziata quando aveva sottoposto i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore dell'epoca, per avere una sua critica. Rivera, colpito dal suo stile moderno, l'aveva presa sotto la sua ala protettrice introducendola nella scena politica e culturale messicana. I due, oltre l'arte, avevano in comune molto di più. Tanto che nel '29 si erano sposati, nonostante Frida sapesse dei continui tradimenti a cui sarebbe andata incontro. Ma costretta a subire continue sofferenze sentimentali, aveva avuto anche lei numerosi rapporti extraconiugali, comprese varie esperienze omosessuali. Nel '39 avevano divorziato a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida. Per poi risposarsi un anno dopo a San Francisco, con l'uomo che tanto le aveva insegnato. Da lui aveva assimilato uno stile naïf, tangibile nei piccoli autoritratti ispirati alle tradizioni precolombiane. La sua intenzione era, ricorrendo a soggetti tratti dalle civiltà native, di affermare la propria identità messicana. Nata il 6 luglio del 1907, affermava di esser nata nel 1910, anno della sollevazione contro l’oligarchia latifondista e la dittatura di Porfirio Diaz.

Frida era figlia della rivoluzione messicana ("Sono nata con una rivoluzione. È in quel fuoco che sono nata, pronta all’impeto della rivolta fino al momento di vedere il giorno. Mi ha infiammato per il resto della mia vita"). Una identità evidente anche nel suo modo di vestire, ispirato al costume delle donne di Tehuantepec, un comune di Oaxaca. Il costume delle donne di una "società matriarcale", quelle che comandavano i mercati locali ed erano famose per deridere gli uomini. Numerose le relazioni amorose, di ambo i sessi, avute dalla pittrice, con nomi che nemmeno all'epoca passavano inosservati. Il rivoluzionario russo Lev Trockij e il poeta André Breton. La storia con Tina Modotti, militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti. Con la ballerina, coreografa e pittrice Rosa Rolando e con la cantante messicana Chavela Vargas. In Messico, durante il periodo post-rivoluzionario, le donne della generazione di Frida Kahlo arrivavano all'emancipazione principalmente tramite la politica; probabilmente anche per la stessa ragione la pittrice si era iscritta al Partito Comunista Messicano. L'unico suo rammarico era quello di non aver avuto figli.

L'incontro di Frida Kahlo con il surrealismo

Identità messicana, stile naïf e surrealismo. Dopo gli autoritratti  e i dipinti che raccontavano gli incidenti della sua vita, Frida aveva messo in luce il suo stato interiore. Il suo modo di percepire la relazione con il pianeta, vestendo i panni di un bambino, soggetto di molte sue opere. In una miscela tra tradizione messicana classica e produzione surrealista. Quadri esposti nella Parigi degli anni Quaranta, vivace nei caffè degli artisti e nei night club. La Kahlo sapeva che l'etichetta surrealista le avrebbe portato l'approvazione dei critici, ma preferiva quella di artista originale. Quello che può essere considerato il suo lavoro più surrealista è il quadro 'Ciò che l'acqua mi ha dato'. Immagini di paura, sessualità, memoria e dolore galleggiano nell'acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell'artista. Estremamente surreale è anche il suo diario personale, iniziato nel '44 e tenuto fino alla morte. Una sorta di monologo interiore scandito da immagini e parole.

La vita e l'arte di questa icona celebrata da allora e sempre con mostre in tutto il mondo, è stata raccontata in tantissimi documentari e in due film. Nell'86 'Frida, Naturaleza Viva', diretto da Paul Leduc e interpretato da Ofelia Medina. E più di recente, nel 2002, 'Frida', interpretata da Salma Hayek, nel film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia che le è valso una nomination all'Oscar come miglior attrice. Quello che ha affascinato e continua ad affascinare di lei è la sua biografia, più che le sue opere. La sua essenza e il suo vissuto, più dei quadri, in passato rimasti invenduti nelle aste. Perché la vita di Frida, di questa straordinaria interprete del Novecento, è essa stessa un'opera d'arte. Le sue ceneri sono conservate nella sua Casa Azul, oggi sede del Museo Frida Kahlo. Sdrammatizzava la morte: "Dottore, se mi lascia bere questa tequila, prometto che al mio funerale non tocco un goccio". Le ultime parole che scrisse nel diario furono: "Spero che l'uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più". In realtà Frida non se ne è mai andata.

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Gianfranco Funari: "Manco da qui taccio!"

Dieci anni fa la scomparsa di Gianfranco Funari

A dieci anni esatti dalla scomparsa di Gianfranco Funari, il conduttore tv della gente, celebre per la sua veracità e irriverenza, sembra ancora parlare al suo pubblico. A ricordare cosa è stato e cosa sempre sarà per l'uomo della strada come per l'intellettuale, è oggi più che mai l'epitaffio sulla sua tomba. "Ho smesso di fumare. Manco da qui taccio!". Gianfranco Funari non ha mai taciuto, ed è stato il vero precursore del reality e della talk-rissa. Ha portato sul piccolo schermo il volto e la voce delle persone comuni. Lui che amava definirsi "non un giornalista, ma un giornalaio". Quel volto irriverente con la politica ma genuino con il pubblico: "Voglio rimanere sempre libero. Voglio stare dalla parte della gente", diceva il celebre conduttore, opinionista, cabarettista. Creatore di un linguaggio volutamente volgare, di citazioni celebri e siparietti tv passati alla storia, Funari è stato un paladino dell'antipolitica.

Se per un attimo immaginiamo che sia ancora qui, ci rendiamo conto che il suo essere popolare e vicino all'uomo della strada è un must che non è mai passato di moda. Anzi, oggi più che mai, è terribilmente attuale. La denuncia contro le ingiustizie della classe politica, la comicità in quelle battute popolari, sono l'Italia di oggi. Ma lui aveva un modo tutto e solo suo per comunicare con aforismi e motti e lanciare anatemi contro il Potere e la televisione. Con una vis polemica fatta di provocazioni e improvvisazioni. Ribattezzato da Piero Chiambretti "l'ultimo grande eretico della televisione", sui retroscena del piccolo schermo Funari non aveva dubbi: "La televisione è come la merda: bisogna farla ma non guardarla". Politicamente scorretto non risparmiava critiche a nessuno: "Sono un pentito del centrodestra e un deluso dal centrosinistra". Celebri le sue liti con Silvio Berlusconi o l’ex ministro della sanità Rosy Bindi.

Dal gioco d'azzardo al cabaret, poi l'approdo in tv

Funari era nato a Roma, nel '32, da una famiglia benestante poi caduta in disgrazia. L'azienda del suo bisnonno, cocchiere ufficiale di papa Pio IX, andò distrutta a causa di un'esondazione del fiume Tevere. Dopo alcuni lavori saltuari, il caso gli fece incontrare un ispettore esperto di gioco d'azzardo. Funari si appassionò al mondo dei casinò e decise di lavorare come croupier prima a Saint-Vincent e poi per undici anni a Macao, diventando il direttore di una casa da gioco. Dopo alcune esibizioni amatoriali come cabarettista in vari locali romani come Il Giardino dei Supplizi e il Sette per Otto, nel '67 fu notato da Oreste Lionello, che gli propose di entrare nei suoi spettacoli. E dall'entourage di Mina, che lo fece approdare al Derby di Milano. Nel '69 debuttò nel programma 'La domenica è un'altra cosa' condotto da Raffaele Pisu, cui fece seguito il programma di Castellano e Pipolo 'Foto di gruppo' (1974), condotto dallo stesso Pisu. E ancora, nel '76 condusse insieme a Claudio Lippi e Renato Carosone il programma televisivo 'Per una sera d'estate'.

Come conduttore di programmi di attualità debuttò sul piccolo schermo a Telemontecarlo nell'80, con la trasmissione 'Torti in faccia', con una formula innovativa che metteva al centro battibecchi tra semplici cittadini. Una formula vincente, quella di mettersi nei panni del popolo, che lo accompagnerà per tutta la sua carriera. "In televisione per essere eccezionali bisogna mascherarsi da normali, abbassarsi al gradino più basso, corteggiare senza pudore le casalinghe", diceva il mattatore volto di programmi su Rai2 come 'Mezzogiorno è...'. Un programma che andrà avanti per tre stagioni, fino a quando, a causa dell'invito fatto a Giorgio La Malfa e non gradito dai vertici dell'azienda, fu allontanato. Riprese poi ad arringare il pubblico mettendo i politici alla gogna, con 'Mezzogiorno italiano' su Italia 1 nel '91. Ma a causa di alcuni dissapori con Berlusconi, la trasmissione fu sospesa e Funari fu costretto a lasciare anche la Fininvest. Nel gennaio 2000, tornò a Mediaset diventando ospite fisso del talk show 'A tu per tu', in onda su Canale 5 e condotto da Antonella Clerici e Maria Teresa Ruta.

'Reclame!', aforismi e siparietti di Gianfranco Funari

Gli ultimi anni della sua carriera e della sua vita, Funari fece ritorno sui circuiti televisivi di Odeon TV e Cinquestelle, con 'Extra Omnes' e 'Virus'. Poi ancora  il sabato sera in prima serata su Rai 1 nel 2007, con la trasmissione 'Apocalypse Show', uno spettacolo che univa lo show alla denuncia sociale, incentrato su un'ipotetica, prossima apocalisse ecologica. La trasmissione era stata lanciata da un promo che, citando una famosa scena del film di Federico Fellini 'Amarcord', vedeva il conduttore arrampicato su un albero gridare in dialetto romanesco: "Vojo Raiuunoo". Sì, il dialetto, un mantra della sua filosofia del 'parla come mangi'. Espressioni come 'Reclame!', per lanciare alla Funari la pubblicità. Espressioni urlate, come se parlasse a quell'ideale uomo della strada che lo guardava dentro lo schermo, rivolto all'operatore con "damme la due, damme la tre", o "che mortadella rigà".

Citazioni diventate tormentoni di Corrado Guzzanti, uno dei suoi più celebri imitatori. Un linguaggio ai limiti del trash e spiarietti indimenticabili. Battute, a volte battutacce, che racchiudevano una personalissima visione della vita, della politica e della televisione del mattatore più popolare di sempre. E con quello stesso stile ha deciso di andarsene. Sepolto nel cimitero Monumentale di Milano, ha voluto un epitaffio degno del personaggio. Comico e irriverente ("Ho smesso di fumare. Manco da qui taccio!"). Per l'ultimo viaggio, il 12 luglio del 2008, ha portato con sé tre pacchetti di sigarette, un accendino, alcune fiches da gioco, e un telecomando per la televisione. Simboli di quello che Gianfranco Funari è stato e sempre sarà.

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"Quanto manca alla vetta? Tu sali e non pensarci"

Tremila like a Socialmediaitaly, tremila volte grazie!

"Rare sono le persone che usano la mente. Poche coloro che usano il cuore. Uniche coloro che usano entrambi", diceva Rita Levi Montalcini. Noi di Socialmediaitaly, quando raccontiamo una storia, cerchiamo di unire alla logica le emozioni. Sempre. Siamo nati meno di quattro mesi fa, e la nostra pagina Facebook ha superato i tremila like. Un successo inaspettato nonostante l'impegno costante che abbiamo messo nel raccontare al meglio tante storie. Personaggi e soprattutto persone, con il loro vissuto e le loro testimonianze. Storie della nostra Italia, di imprenditori virtuosi che l'hanno onorata, dei nostri bei borghi che rendono il Belpaese unico al mondo. Testimonianze di chi non c'è più, ma che ha lasciato un segno indelebile nelle nostre coscienze.

Solo per citare qualche nome: abbiamo esaltato il Made in Italy parlando dei miti della Olivetti, della Vespa e della Fiat 500. Abbiamo ricordato Mario Galbusera, padre dei biscotti che ci hanno fatto crescere, il 23 aprile scorso, giorno della sua scomparsa. In questo splendido viaggio verso i tremila like, abbiamo raccontato la storia di Leonardo Da Vinci, Massimo Troisi, Gino Bartali, Rino Gaetano, Giorgio Faletti, Paolo Villaggio e Bud Spencer. E ancora, siamo andati sulle stelle con la mente, tutta orgogliosamente italiana, di Margherita Hack. E abbiamo assaporato la poesia di Giacomo Leopardi nella cornice della bella Recanati. Lo confessiamo, è stato un viaggio davvero meraviglioso, che ci spinge ad andare avanti e a condividere con voi tante altre storie che raccontano ciò che siamo.

Socialmediaitaly mette al centro la persona

Socialmediaitaly, agenzia di comunicazione nata grazie al connubio di professionalità, passione e creatività, punta a mettere al centro la persona. Diamo voce alle vostre idee attraverso i canali d’informazione, dalle agenzie di stampa ai giornali online e cartacei, seguendovi passo passo anche nel mondo dei social. Creiamo siti internet puntando su contenuti di qualità. Il nostro fiore all’occhiello è il servizio di ufficio stampa: studiamo il piano di comunicazione più adatto, dalla preparazione dei comunicati stampa alla strategia per rendere la vostra attività visibile sui mezzi di informazione.

Organizziamo eventi veicolandoli attraverso i canali tradizionali di informazione e i social network più utilizzati. A proposito di social, creiamo pagine dedicate, dove raccontiamo la vostra storia, privata e professionale. La rendiamo visibile per condividerla con gli altri, accompagnando chi si affida a noi in ogni passaggio, per gestire al meglio la propria immagine. Stare sui social e parlare di se è semplice ma comunicare è tutta un’altra storia. Realizziamo Blog. Avere un diario ‘virtuale’, dove raccontare la propria storia e condividerla quotidianamente oggi è una strategia vincente nella comunicazione e nel marketing. Dal Blog in stile diario a quelli tematici, molto simili ad articoli di giornale e dedicati a uno specifico argomento, vi accompagniamo per valorizzare la vostra immagine.

Il nostro motto: "Quanto manca alla vetta? Tu sali e non pensarci"

Socialmediaitaly è tutto questo. Comunicazione tra la gente e per la gente. Non ci intimorisce guardare la montagna dal basso, ogni giorno, passo dopo passo, storia dopo storia, scaliamo un piccolo pezzettino. Diceva Friedrich Nietzsche: "Quanto manca alla vetta? Tu sali e non pensarci". Questo è il nostro motto.

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Vivien Leigh, per sempre Rossella O'Hara

L'interprete di Rossella O'Hara è scomparsa cinquantuno anni fa

Aveva solo cinquantatré anni Vivien Leigh, volto celebre di Rossella O'Hara in 'Via col vento', quando la morte la portò via, a Londra, per una grave forma di tubercolosi. Quella fine tragica, il 7 luglio del '67, purtroppo, non era il triste epilogo di uno dei suoi film. Era tutto vero, come era vera Vivien in ogni sua interpretazione. L'universo interiore controverso delle donne che interpretava sullo schermo era anche il suo. Dalla capricciosa Rossella di 'Via col vento' alla psicotica Blanche di 'Un tram chiamato desiderio'. I ritratti femminili di Vivien Leigh riflettevano la sua stessa debolezza di vivere e le sue stesse ansie interiori. Entrambe queste interpretazioni cariche di phatos gli valsero un Oscar. Il primo, nel '39, al fianco di Clark Gable nei panni di Rhett Butler. Il secondo, datato 1951, con Marlon Brando, lo Stanley Kowalski brutale e sensuale. Incoronata nel 2006, da un sondaggio inglese, la 'più bella britannica di tutti i tempi', la Leigh è stata una diva decisamente anomala nel panorama hollywoodiano, avendo girato nell'arco della carriera, nonostante le numerose offerte, solo una ventina di film.

Vivien Leigh, per sempre Rossella O'Hara

Nata in India il 5 novembre 1913, all'anagrafe Vivian Mary Hartley, visse tra gli angoli esotici dell'Asia meridionale fino all'età di sei anni. Suo padre era un alto funzionario inglese delle colonie poco prima della Prima guerra mondiale. La famiglia si stabilì poi in Inghilterra dove Vivien frequentò una scuola gestita da suore. Una educazione rigida che rese l'infanzia della futura Rossella O'Hara complicata. A diciotto anni, spinta dalla vocazione artistica, ma anche dalla consapevolezza della sua eccezionale bellezza, approdò all'Accademia di Londra. La sua prima passione era il teatro, ma Vivien guardava con estremo interesse al mondo dei set cinematografici. Una realtà che stava prendendo sempre più piede. Il suo ingresso nel mondo patinato del cinema e delle star avvenne nel 1932. Un anno prima, giovanissima, sposò Hubert Leigh Holman, importante avvocato patrocinante alla Corte Suprema. Unione da cui nacque l'anno dopo la figlia Suzanne. Il debutto sul palcoscenico avvenne a teatro con 'The Green Sash'.

Gli Oscar per 'Via col vento' e 'Un tram chiamato desiderio'

Vivien esordì sul grande schermo con pellicole come 'Things are looking up', e 'Gentleman's agreement', che però non lasciarono il segno.  Passò quasi inosservata, nonostante la sua impeccabile recitazione. La vera svolta arrivò nel '38, quando venne scelta come protagonista femminile di 'Via col vento', film tratto dal fortunatissimo romanzo di Margaret Mitchell. Fu la prima attrice inglese a vincere un Oscar, nonostante fosse poco conosciuta negli States. L'attrice era ancora sposata con Hubert Leigh, nonostante avesse una relazione da circa un anno con Laurence Olivier. Una relazione ufficializzata solo nel '40, quando entrambi divorziarono. Il 30 agosto dello stesso anno, Vivien Leigh sposò Laurence Olivier a Santa Barbara con una cerimonia civile a cui furono presenti solo i due testimoni, l'attrice Katherine Hepburn e lo scrittore e sceneggiatore Garson Kain. Una fortuna per Vivien che quel film fosse già leggenda, perché se lo scandalo fosse venuto a galla prima, per lei il successo di 'Via col vento' non sarebbe mai arrivato. Quello di un'eroina romantica, tra innocenza e civetteria, grintosa, caparbia e appassionata.

Vivien Leigh, per sempre Rossella O'Hara

Dei personaggi mitici di una pellicola considerata un simbolo della cinematografia dei classici, è rimasta solo Olivia de Havilland, la Melania cugina di Rossella O'Hara, che, dopo varie peripezie, fu l'unica a perdere la vita nella pellicola dei protagonisti. La stessa cosa, però, non è successa nella vita reale, visto che l'attrice ha compiuto da pochi giorni 102 anni. 'Via col vento' ha conquistato ben otto Oscar. Eppure non fu la migliore interpretazione di Vivien. Nel '51 vestì i panni della fragile e nevrotica Blanche Dubois nel film 'Un tram chiamato desiderio' di Elia Karzan. E si aggiudicò la seconda statuetta. Tra gli aneddoti legati alle manie dell'interprete di Rossella O'Hara, si dice che usasse uno dei suoi due Oscar come fermaporta del bagno. E quella 'passione' per il fumo (pare che durante le riprese di 'Via col vento' fumasse quattro pacchetti di sigarette al giorno) associata a una terribile depressione. La situazione non migliorò di certo dopo il divorzio da Olivier. Per Vivien fu solo l'inizio della fine. Trascorsi gli ultimi anni di vita con John Merival, il suo corpo deperì lentamente con il tempo, fino a che una grave forma di tubercolosi la fece volare in cielo il 7 luglio 1967.

Le passioni e i drammi di Vivien Leigh

Vivien Leigh amava molto i gatti, soprattutto i siamesi. Non le piacevano le sue mani e le nascondeva con i guanti, ne possedeva più di centocinquanta paia. Il suo era un animo delicato e controverso, con la magia che quel suo essere fosse perfetto per i ruoli che ogni volta le calzavano a pennello. Tra alti e bassi, come nella sua vita. Il '44 fu un anno orribile per Vivien. Cleopatra, il film che avrebbe dovuto interpretare, ebbe un risvolto tragico. Durante le prove, Vivien cadde a terra ed ebbe un aborto spontaneo. La sua salute ne risentì moltissimo. Insonnia, difficoltà respiratorie, depressione, disturbi bipolari diventarono abituali compagni di viaggio per Vivien Leigh, che iniziò anche a bere alcol e fu sottoposta all'elettroshock. La terapia, all'epoca ancora rudimentale, le provocò danni permanenti alle tempie. Nel '53 l'attrice ebbe un altro aborto e dovette ritirarsi dalle riprese de 'La pista degli elefanti'.

Vivien Leigh, per sempre Rossella O'Hara

Pochi, guardando quell'eroina romantica dal volto di Rossella O'Hara, hanno immaginato la sua fragilità e la sofferenza interiore. Quella di una donna dalla bellezza straordinaria che imprigionava un'esistenza complicata fatta di euforia intervallata a profondi stati d'ansia e dolore. La fama e la sofferenza, la gloria e la malattia si sono alternate nel corso dei suoi cinquantatré anni. Volata via troppo presto, inseguendo una pace che in vita aveva sperato e mai trovato, nonostante i bagliori del successo. Nonostante tutto però, per tutti, lei è e sarà sempre Rossella O'Hara. Quella donna che, lasciando intravedere un'ultima speranza, una luce improvvisa nel buio, diceva: "Dopo tutto domani è un altro giorno".

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Dalai Lama, 83 anni nella 'ruota del tempo'

La nascita, 83 anni fa, del Dalai Lama Nobel per la Pace

"Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni". Uno dei diciotto principi della felicità, secondo sua Santità Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama del Tibet. Nato il 6 luglio di 83 anni fa, uno dei simboli della spiritualità e della pace suprema nel mondo, ha attraversato con un carisma fuori dal comune la filosofia del 'Kalachakra'. Ossia la 'ruota del tempo', una concezione che aspira ad una evoluzione positiva di tutta la vita intelligente, nel sacro ambiente di questo pianeta. Monaco buddhista nell'ordine religioso fondato da Buddha Shakyamuni intorno al 525 a.C. e rivitalizzato in Tibet da Lama Tzong Khapa nel 1400, è portavoce dell'antica tradizione educativa buddhista. Per i suoi seguaci è una reincarnazione del Buddha Avalokiteshvara, l'arcangelo buddhista Mahayana della compassione. Il Dalai Lama, titolo attribuito dai sovrani mongoli che significa 'Oceano di Saggezza', è il salvatore dei Tibetani.

Quello della 'ruota del tempo' è un concetto che torna in tante massime e pensieri del Dalai Lama, diventati un'icona di spiritualità. Soprattutto quando parla del mondo occidentale. “Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se dovessero non morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.” Parole del Premio Nobel per la Pace (per la sua lotta nonviolenta a favore della liberazione del Tibet nell'89), portavoce della comprensione tra i popoli e religioni, ha ricevuto anche numerose lauree honoris causa e riconoscimenti internazionali. Il tempo come senso della vita, impresso in un'altra profonda massima del Maestro di saggezza: "Ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama ieri, l’altro si chiama domani, perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere".

L'esilio in India di Sua Santità Tenzin Gyatso dal '59

Il titolo di Dalai Lama viene attribuito da secoli al supremo rappresentante della tradizione buddista tibetana, che fa parte della cosiddetta Scuola dei berretti gialli. Fino a cinquanta anni fa era la figura religiosa e politica più importante del Tibet, ma da quando la regione asiatica è stata annessa alla Cina il Dalai Lama è in esilio. Un esilio che non gli ha fatto mai perdere prestigio internazionale e forza spirituale. Il suo predecessore, il tredicesimo Dalai Lama ha lottato strenuamente per mantenere indipendente il Tibet, conteso all'inizio del secolo scorso da Inghilterra, Russia e Cina. Ma non è riuscito a realizzare quel sogno. Dopo l'inclusione del Tibet nella Repubblica popolare cinese (1951) e alcune rivolte tibetane contro i cinesi, nel '59 Tenzin Gyatso ha chiesto asilo in India, dove risiede tuttora. Nato da famiglia contadina, in un piccolo villaggio nel nord-est del Tibet, a soli due anni, è stato riconosciuto ufficialmente quale reincarnazione del suo predecessore.

La sua educazione monastica inizia fin da piccolo: a sei anni studia arte e cultura tibetana, sanscrito, medicina, logica e filosofia buddista. A quindici anni assume pieni poteri politici del suo paese (capo di Stato e di Governo) mentre il Tibet sta faticosamente trattando con la Cina per impedire l'invasione del proprio territorio. Nel frattempo il Dalai Lama viene insignito del Geshe Lharampa degree, dottorato in filosofia del buddismo, conseguito al Jokhang Temple di Lhasa durante il tradizionale Monlam Prayer Festival. Nel '59 falliscono tutti i tentativi di far rispettare alla Cina gli impegni di un trattato che prevedeva l'autonomia e il rispetto religioso dei tibetani. Con la brutale repressione dell'Insurrezione Nazionale Tibetana a Lhasa, da parte dell'esercito cinese, il Dalai Lama è costretto all'esilio in India. Da allora l'esodo continuo dei tibetani dal proprio paese ha rappresentato un'emergenza internazionale su cui troppo spesso si spengono i riflettori.

Il Dalai Lama e il sogno di sempre di un Tibet libero

Dall'India, il Dalai Lama non ha mai smesso di lottare, senza mai ricorrere alla forza ma in maniera sempre decisa, per far valere i diritti dei tibetani contro la dittatura cinese. I suoi insegnamenti, però, sono sempre andati ben oltre i confini delle nazioni. Con la costituzione del Governo Tibetano in esilio, il Dalai Lama ha subito compreso che il suo primo obiettivo doveva essere la preservazione della comunità tibetana e della sua cultura. Nel '63, Sua Santità ha promulgato una costituzione democratica, che servisse da modello per un futuro Tibet libero, basata sia sui principi del Buddismo sia sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Venticinque anni dopo ha proposto un Patto di Pace in cinque punti per avviare una soluzione pacifica della situazione, che però non ha avuto evoluzioni particolari. Solo nel 2002 e nel 2003, due delegazioni tibetane si sono recate in Cina e in Tibet per porre le basi di un futuro negoziato.

<> on February 26, 2014 in Los Angeles, California.

Oggi i membri del parlamento sono eletti direttamente dal popolo che, dalla primavera 2001, elegge direttamente anche il Kalon Tripa, o Primo Ministro, del governo tibetano. Il Primo Ministro, a sua volta, designa i componenti del proprio governo. Sua Santità ha continuamente sottolineato la necessità di democratizzare l’amministrazione tibetana e ha pubblicamente dichiarato che quando il Tibet avrà ottenuto l’indipendenza, non manterrà alcuna carica politica. Resteranno sempre e comunque il suo carisma spirituale e la luce che ha portato nei suoi viaggi in ben quarantasei nazioni del mondo. Nell'89, il Dalai Lama ha accettato il premio Nobel per la Pace "a nome di tutti gli oppressi, di tutti coloro che lottano per la libertà e la pace nel mondo e a nome del popolo tibetano". Nel suo commento disse: “Questo premio costituisce un’ulteriore conferma delle nostre convinzioni: usando come sole arma la verità, il coraggio e la determinazione, il Tibet sarà liberato". Sua Santità non perde la speranza e aspetta quel giorno.

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Giorgio Faletti: "Confesso che ho vissuto"

Il poliedrico Giorgio Faletti, scomparso quattro anni fa

Poliedrico ed eclettico. Scrittore, attore, cantautore e comico. Giorgio Faletti era tutto questo e molto di più. Scomparso il 4 luglio del 2014 a 63 anni, il volto di personaggi storici del 'Drive In' come Vito Catozzo e l'autore di capolavori letterari come 'Io Uccido', ha lasciato un segno indelebile del suo talento artistico versatile. Un personaggio unico e capace di reiventarsi e stupire. Quattro anni sono passati dal suo addio, racchiuso nelle pieghe de 'L'ultimo giorno di sole', un romanzo pubblicato dopo la sua morte grazie alla moglie, Roberta Bellesini Faletti. Un libro in cui saluta, senza citarla, la sua Asti, piccola Spoon River in riva al Tanaro e si congeda dal suo amato pubblico e dalla vita. Giorgio Faletti, che ha combattuto con la forza di un leone contro un male incurabile, poche ore prima di andarsene, sul suo profilo Facebook, aveva scritto: "A volte immaginare la verità è molto peggio che sapere una brutta verità. La certezza può essere dolore. L'incertezza è pura agonia".

Giorgio Faletti, come raccontava lui stesso, era cresciuto in una casa modesta al numero 33 di Corso Torino. "Ma uno nasce dove indica il destino. Cinquanta chilometri in là - diceva - e avrei potuto chiamarmi Agnelli, invece sono, senza rimpianti, figlio di Carlo Faletti. Mio padre era ambulante, mia madre sarta. Vivevano in periferia, quando raggiungevano il centro dicevano seri: 'Andiamo ad Asti'. Se uscivo dalla porta principale avevo il viale, sul retro si spalancava il Far West. La pianura, il ponte, la ferrovia, la libertà. La sera, in cortile, i grandi tornati dal lavoro giocavano con i più piccoli a pallapugno. Nessuno aveva niente e ogni cosa era pulita, vivace, meravigliosamente semplice". La sua educazione alla lettura era nata nella cantina del nonno, ma non gli piaceva studiare. "La laurea in Giurisprudenza l’ho presa solo per non deludere mio padre", e infatti invece di fare l'avvocato aveva aperto un'agenzia pubblicitaria. A ventisei anni Giorgio, con la vena comica nel sangue, approda al palcoscenico.

Dal 'Drive in' a Sanremo, successo dopo successo

La favola della popolarità di Giorgio Faletti nasce negli anni Ottanta tra le gag grottesche e surreali del 'Drive In'. Quando veste i panni di Vito Catozzo, una guardia giurata che non azzecca un congiuntivo e che scandisce quegli sketch che raccontano l'Italietta con l'indimenticabile 'Porco il mondo che c'ho sotto i piedi!' (espressione diventata poi un titolo di un suo libro). A Vito Catozzo, vigilante sprezzante del pericolo tra i paradossi della quotidianità, seguono altri buffi personaggi. Da Carlino a Suor Daliso, fino al testimone di Bagnacavallo. Fianco a fianco di Zuzzurro e Gaspare recita in 'Emilio' dove dà vita a un'altra maschera grottesca: Franco Tamburini, stilista di Abbiategrasso. Poi un giorno si fa male a un ginocchio, sta fermo per due mesi e qualcosa cambia. “Sentivo che quello che stavo facendo non mi bastava più. Ma, mentre ero sicuro di quello che non volevo, non sapevo ancora che cosa avrei voluto fare".

Di lì a poco Giorgio Faletti, pur percependo la differenza "tra essere un musicista, e l’essere, come me, un musicale", si mette alla prova nella nuova veste di cantante. Il primo album 'Disperato ma non serio' lo produce Mario Lavezzi e vende ottantamila copie. Da qui sarà un'escalation di successi. Nel '94 arriva secondo al festival di Sanremo con 'Signor tenente'. I giornalisti accreditati lo acclamano assegnandogli il Premio della critica per quel brano, ispirato alle stragi di Capaci e di via D'Amelio, che poi l'autore inserisce nell'album 'Come un cartone animato' che gli procaccierà il primo disco di platino per le vendite. Scrive anche canzoni per Angelo Branduardi, Fiordaliso, Gigliola Cinquetti e Mina. Con 'L'assurdo mestiere' altra canzone sanremese diventata poi un album, l'artista dalle mille sfaccettature conquista il Premio Rino Gaetano riservato alla componente letteraria delle canzoni. Ma non è finita, la carriera di Faletti sta per prendere una nuova, sorprendente, piega.

Giorgio Faletti scrittore, l'esordio con il bestseller 'Io Uccido'

"Mi sono reso conto che potevo esprimermi in altri modi. Ho iniziato a scrivere raccontini seriamente, li ho fatti leggere a qualcuno che mi ha esortato a cercare un editore. Ma il primo che ha avuto in mano 'Io Uccido' neanche mi ha considerato: chissà se se n’è mai reso conto?". Se lo chiedeva Giorgio Faletti, soprattutto dopo l'esordio, nel 2002, come scrittore. Con 'Io Uccido', thriller sorprendente che vende oltre quattro milioni di copie, giudicato un autentico capolavoro, inizia questa nuova avventura di successo e gioia. Gioia interrotta momentaneamente da una dramma. L'artista viene colpito da un ictus, che supera fortunatamente senza conseguenze. Nel 2004, con grande dedizione e determinazione, esce un secondo romanzo, 'Niente di vero tranne gli occhi', che bissa il successo del primo e ancora sbalordisce i critici. E poi un libro dopo l'altro, testi tradotti in venticinque lingue.

Non è ancora finita: comico, cantante, scrittore e infine attore. L'occasione arriva nel 2006, quando Giorgio Faletti esordisce come attore, non più comico, interpretando Antonio Martinelli. La parte del professore di 'Notte prima degli esami' con un cuore celato dietro un'apparenza spietata, gli vale la nomination al David di Donatello come migliore attore non protagonista. Nel 2009 ottiene una parte in 'Baarìa' di Giuseppe Tornatore e poi ne 'Il sorteggio' di Giacomo Campiotti, che gli affida il ruolo di un eccentrico sindacalista. E poi ancora libri, che scriveva tenendo in bocca una vecchia pipa: "Con un duplice risultato: non fumo sigarette e fa molto scrittore da un punto di vista iconografico". E infine l'autobiografia 'Da quando a ora', dove Giorgio si racconta e racconta "la gente". Quella che lo ha amato in ogni sua sfaccettatura e che ha ispirato ogni singolo attimo della carriera di questo artista straordinario. Sorride ancora con la pipa in bocca e un testamento, che appare tra le righe del suo website: "Confesso che ho vissuto".

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Fiat 500, sessantuno anni e neppure una ruga

La prima Fiat 500 debutta il 4 luglio del '57

Lo scorso anno ha compiuto sessant'anni, eppure è un'eterna bambina. Tanto che la Fiat, celebrando la sua icona pop, ha raccontato questo successo senza tempo con lo slogan 'Forever young, since 1957'. La Fiat Nuova 500, meglio conosciuta come Fiat 500, è stata ed è molto più di un'auto. Moda, stile di vita e fascino italiano che corrono su quattro ruote. Il 4 luglio del '57 la star delle superutilitarie fu presentata al suo pubblico. Ribattezzata anche Cinquino, oggi compie sessuntuno anni e non ha neppure una ruga. La casa torinese l'ha prodotta dal '57 al '75. Destinata alle famiglie operaie, è stata l'auto degli italiani. Venne progettata da Dante Giacosa, padre della Topolino, la macchina il cui nome era ispirato alle linee del frontale simili al musetto del roditore. Ma la novità di casa Fiat era decisamente più economica, a un prezzo di 490mila lire.

La Fiat 500 aveva le dotazioni ridotte al minimo. Finestrini fissi, eccezion fatta per i deflettori laterali apribili a compasso, strumentazione essenziale. La plancia comprendeva il cruscotto a palpebra, chiave di accensione e comando luci a sei posizioni. Interruttore per la luce del quadro, interruttore dei tergicristalli ed il deviatore a levetta trasparente per le frecce. Sul cruscotto, il tachimetro, il contachilometri, la spia verde delle luci, per la dinamo o generatore, rossa per il carburante rimasto e per l'olio. Solamente tre gli optional disponibili: lo sbrinatore del parabrezza, pneumatici con il fianco bianco e colore Blu Scuro 456. Il divanetto posteriore era assente, sostituito da una panchetta non imbottita, ragione per la quale l'auto veniva omologata per due sole persone. Le portiere erano incernierate posteriormente e il tetto in lamiera sostituito da una capote in tela estesa sino al limite del cofano motore.

Dalla versione economica alla Sport, alla Lusso

Il debutto di questa utilitaria evergreen non era stato da vera star quale poi sarebbe diventata nel tempo. Mostrata in anteprima il primo luglio nei giardini del Viminale al presidente del Consiglio Adone Zoli, e poi ufficialmente il 4 luglio a Torino, al momento della prima apparizione fu abbinata ad una dotazione troppo spartana anche per l’epoca. L’accoglienza del pubblico era stata tutt’altro che entusiasta e Fiat era corsa subito ai ripari. Nel novembre del '57 la nuova 500 venne commercializzata in versione Economica (proposta a 465 mila lire) e Normale a 490 mila lire. Quest’ultima migliorata su diversi aspetti, a partire dall’abitacolo per quattro persone, motorizzazione a 15 cavalli per raggiungere i 90 chilometri orari. A fronte di un battage pubblicitario su grande scala, la 500 stentava ancora a decollare. Nel '58 venne introdotta una versione sportiva (la Sport) che nelle intenzioni della Casa avrebbe dovuto costituire un buon rilancio d'immagine sul pubblico.

Fiat 500, sessantuno anni e neppure una ruga

La 500 Sport partecipò con successo a numerose competizioni, un successo che arrivò a definirsi tale con l'arrivo nel '60 della versione D, e poi con l'affermarsi sul mercato dei modelli sportivi presentati, soprattutto, dalla Abarth e dalla Giannini. Il '59 era stato un anno ricco di cambiamenti e novità per la 500, che aveva conquistato il prestigioso premio 'Compasso d'Oro' per il design. Fu la prima automobile a vantare questo riconoscimento, riservato, fino ad allora, ai più diversi prodotti industriali. In quel periodo la Fiat presentò anche la 500 Giardiniera (station wagon). Derivata direttamente dalla 500 D, di passo allungato, con un piano di carico sfruttabile grazie al motore coricato su un fianco che, per la sua compattezza, venne ribattezzato 'a sogliola'. La 500 D rimase pressoché immutata fino al '65 quando, la Fiat decise di rinnovarla con il modello 'F'. Abolendo i profili di alluminio sulle fiancate e sul cofano anteriore, con l'apertura delle portiere controvento. Dal '68 accanto alla versione F, fu introdotta quella 'Lusso': la 500L.

Fiat 500, un vero cult tutto italiano nel mondo

La superutilitaria delle famiglie, degli operai e di centinaia di migliaia di automobilisti. Tutti impararono a fare la doppietta (il cambio era senza sincronizzatore), sinonimo di grande praticità unita ad un prezzo abbordabile.  Dopo la scomparsa dai listini nel '75, il 4 luglio del 2007 Fiat ha riportato in vita la 500, questa volta con trazione e motore anteriori. Da lì è ripartita una storia di successo che non sembra conoscere ostacoli. Un sucesso senza tempo: nei primi sei mesi dell’anno, è stata ancora la quinta auto più venduta in Italia. La sua forza, un riuscito richiamo delle forme originarie abbinato a un ammodernamento importante in termini tecnologici e stilistici. Dedicata proprio ai 60 anni festeggiati lo scorso anno, la Fiat Cinquecento Anniversario.

Tra le tante curiosità legate a questa star a quattro ruote, c'è anche 'Pepita', la Nuova Fiat 500 interamente laminata in oro e personalizzabile con pietre preziose come diamanti, smeraldi e zaffiri. Realizzata, su licenza Fiat, da una carrozzeria privata, sono pochissimi i modelli esistenti al mondo. Nel novembre del 2010 la nuova Fiat 500 è stata presentata anche a Los Angeles e, già dal gennaio del 2011, è iniziata la commercializzazione del modello negli Usa, in Canada e in Messico. Erano 27 anni che un’auto con il marchio Fiat non veniva venduta in nordamerica. Per la sua storia e per l'influenza che ha saputo trasmettere nella cultura, nel design e nello stile italiano, la Fiat 500 è entrata a far parte della collezione permanente del MoMa di New York (come la Vespa Piaggio grigia GS 150 del '55). Un pezzo da museo che racconta una storia italiana di cuore e motori.

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