Jim Morrison, la leggenda del 'Re Lucertola'

Il 'Re Lucertola', scomparso il 3 luglio del '71

"Quando il mio corpo sarà cenere, il mio nome sarà leggenda". In uno dei versi poetici di Jim Morrison, scomparso il 3 luglio del '71, c'è come una premonizione. La fine di un'icona della rivoluzione culturale degli anni Sessanta, che ancora oggi, dopo quarantasette anni, è considerata profetica. Il 'Re Lucertola', leader carismatico e frontman della band statunitense The Doors è stato uno dei più grandi cantanti rock della storia, paragonato a Dioniso, divinità del delirio e della liberazione dei sensi. Profeta della libertà e poeta maledetto, James Douglas Morrison, o semplicemente Jim, ha incarnato simbolicamente la contestazione giovanile sessantottina deflagrata dall'ateneo di Berkeley e giunta poi in tutta Europa. Una delle icone della rivoluzione di costume degli anni '60, che ha trovato il suo sbocco politico nelle contestazioni pacifiste contro la guerra in Vietnam. Jim, com'è sempre stato per i suoi fan che ancora gli portano fiori sulla sua tomba parigina, era di origini statunitensi.

Amante dei rettili e della cultura sciamanica, il 'Re Lucertola' ha pagato con la vita i suoi eccessi, fatalmente contrassegnati dall'abuso di alcol e droghe. Jim Morrison è, con il chitarrista Jimi Hendrix e la cantante Janis Joplin, uno dei tre rocker caduti nella cosiddetta 'maledizione della J', caratterizzata dalla morte per tutti e tre i musicisti all'età di 27 anni e in circostanze mai del tutto chiare. Il mistero della J racchiuso in quello più ampio del Club dei 27. Certo è che Il 3 luglio del '71 l'icona rock morì in circostanze misteriose nella casa di Parigi, nel quartiere 'Le Marais', dove alloggiava con la compagna Pamela Courson. Fu lei a trovarlo privo di vita nella vasca da bagno. Jim trovò così la tanto decantata fine ('This is the end, my only friend, the end...'), lasciando tutto ciò che aveva alla sua amata Pam, scomparsa tre anni dopo per overdose.

La fine di Jim Morrison, vivo o morto X

In un funerale segreto e frettoloso al cimitero parigino degli artisti di Père-Lachaise, Pamela salutò Jim recitando i versi finali del poema 'Celebrazione della Lucertola'. "Ora giunge la notte con le sue legioni purpuree/ Tornate alle vostre tende e ai vostri sogni/ Domani entreremo nella città della mia nascita/ Voglio essere pronto". La morte di Jim Morrison lasciava aperti molti interrogativi. Morte per cause naturali nella vasca da bagno di casa, o morte per overdose. Secondo il giornalista Sam Bernett, amico del leader dei Doors, Jim sarebbe morto di overdose nel nightclub 'Rock 'n' Roll Circus', dopo aver bevuto birra e vodka e sniffato una dose massiccia di eroina. Chiuso nel bagno del locale, sempre secondo Bernett, sarebbe stato trovato morto ma per nascondere il tutto, il cadavere sarebbe stato portato a casa e adagiato nella vasca da bagno.

Ci sono poi i sostenitori della teoria del complotto, secondo cui la morte di Jim Morrison fu tutta una messa in scena orchestrata dalla CIA, – con la sua, anche quella di Jimi Hendrix e Janis Joplin – per "far fuori" dalla circolazione artisti "scomodi" che con la loro musica inducevano milioni di fan a rifiutare la guerra in Vietnam e vivere in assoluta libertà secondo il modello della controcultura hippie. E ancora, c'è chi sostiene che sia vivo e abbia inscenato la sua morte per sottrarsi alla pressione della popolarità e dedicarsi alla poesia, seguendo così le orme del suo poeta-culto Arthur Rimbaud. Comunque siano andate realmente le cose, secondo la tesi dei biografi Hopkins-Sugerman, "a meno che non si tratti di un omicidio, poco importa come sia morto. La questione di fondo resta quella del 'suicidio'. In un modo o nell'altro, Jim è morto per autodistruzione, e scoprire in quale maniera è solo questione di determinare il calibro della metaforica pistola che lui stesso si è puntato alla tempia".

Il poeta-sciamano, re delle metamorfosi

A tracciare un ritratto di un poeta prestato alla musica, autore di versi celebri diventati icona, è Frank Lisciandro, fotografo e suo amico dai tempi dell'Università tra i banchi dell'UCLA. In scena Jim subiva una completa metamorfosi: "la sua voce dolce e garbata diveniva roca, aspra, profonda e potente. La sua posa dinoccolata si faceva arrogante, baldanzosa. Il suo quieto volto si trasformava in migliaia di maschere di tensione e di emozione. E i suoi occhi, di solito così penetranti e attenti, diventavano vacui e lontani, fino a tramutarsi in due finestre illuminate davanti al pubblico. Con questo sguardo chiaroveggente Jim sembrava scrutare sia nel futuro sia nel passato". Il 'Re Lucertola' danzava, "non in modo fluido e aggraziato, ma con brevi passi saltellanti e moto a stantuffo, sporto in avanti, la testa che scattava su e giù. Si muoveva come un indiano d'America in una danza rituale".

Sul palco Jim "diventava lo sciamano. Nel corso dell'esibizione, come un festante dionisiaco, cantava dei miti moderni, e come uno sciamano evocava un panico sensuale per rendere significative le parole di questi miti. Agiva come se un concerto fosse un rito, una cerimonia, una seduta spiritica, e lui era lo strumento per la comunicazione con il sovrannaturale". A chi lo ha amato e continua ad amarlo, ma anche a chi lo ha contestato per la sua vita dissoluta e sempre al limite, Jim Morrison lascia in eredità uno dei suoi versi migliori. "Quando non ci sarò più, non cercatemi dietro al marmo freddo di una tomba, cercatemi tra le rose. Quando non ci sarò più cercatemi nelle fotografie, fra i miei libri, fra le mie poesie, le mie canzoni e la mia musica. Cercatemi fra tutte le cose che amo di più, perché solo in queste cose troverete la mia anima".

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Paolo Villaggio, un anno senza il ragionier Fantozzi

Il 3 luglio del 2017 la scomparsa di Paolo Villaggio

"Il comico non diventa mai adulto, resta sempre un bambino". Parola di Paolo Villaggio, autore e interprete di personaggi legati a una comicità paradossale e grottesca. Dal professor Kranz, al timido Giandomenico Fracchia, fino al mitico intramontabile ragionier Ugo Fantozzi. Esattamente un anno fa, il 3 luglio del 2017, ci lasciava uno degli attori più popolari del cinema italiano, accostato a nomi come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Ma con un marchio di fabbrica tutto suo, nell'universo megagalattico di un uomo-simbolo che è diventato un aggettivo, ‘fantozziano’. Perché con Fantozzi, Paolo Villaggio è diventato un mito, e viceversa. Una creazione letteraria da cui è nata la fortunatissima saga cinematografica, raccontando un personaggio diventato vera e  propria maschera della commedia dell'arte.

Paolo Villaggio, un anno senza il ragionier Fantozzi

Inventore di una comicità inedita, priva di legami con le tradizioni e i regionalismi del cinema comico popolare. Con la sua attività di attore, umorista e uomo di spettacolo è entrato nella cultura di massa di intere generazioni di italiani. In una 'risata pazzesca', espressione presa alla lettera perchè in tanti sono impazziti per le sfaccettature e quegli sketch 'fuori sincrono' del ragioniere più famoso al mondo. Vincitore del Leone d'oro alla carriera alla 49ª Mostra internazionale del cinema di Venezia, nell'agosto del 2000 gli è stato assegnato il Pardo d'onore al Festival del cinema di Locarno. Villaggio non era solo Fantozzi, oltre alla vena comica c'era molto di più. Ha recitato in parti più drammatiche partecipando a film di registi come Federico Fellini, Ermanno Olmi, Lina Wertmüller, Mario Monicelli, Pupi Avati.

Il talento poliedrico di Paolo Villaggio, non solo Fantozzi

Un talento poliedrico quello di Villaggio. Al percorso attoriale ha fatto eco quello di scrittore, iniziato con un libro su Fantozzi. Capolavoro seguito da varie opere di carattere satirico e da altri otto romanzi dedicati al ragioniere, pubblicati e tradotti in più lingue. Sul piano lessicale ha ideato un tipo di scrittura originale e tagliente fatta di neologismi, aggettivazioni enfatiche, errori morfologici e termini burocratici. Tutti entrati nel patrimonio comune della lingua italiana. Nella sua ultracinquantennale carriera si è cimentato in altri campi espressivi come il giornalismo, la radio e il teatro scrivendo, inoltre, due testi di canzoni per l'amico e cantautore Fabrizio De Andrè. La loro è stata un'amicizia molto speciale, iniziata negli anni del dopoguerra. Il genovese Villaggio conosce Fabrizio De André, futuro cantautore, condividendo con lui gran parte delle sue scorribande giovanili.

Paolo Villaggio, un anno senza il ragionier Fantozzi

È De André a descrivere il loro primo incontro avvenuto nel '48 in una frazione di Cortina d'Ampezzo: "L'ho incontrato per la prima volta a Pocol, sopra Cortina; io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco; gli piacevo perché ero tormentato, inquieto e lui lo era altrettanto, solo che era più controllato, forse perché era più grande di me e allora subito si investì della parte del fratello maggiore e mi diceva: "Guarda, tu le parolacce non le devi dire, tu dici le parolacce per essere al centro dell'attenzione, sei uno stronzo". Gli anni della giovinezza, soprattutto le serate passate nelle varie osterie genovesi o in gruppo a casa di amici, sono invece raccontate dall'attore: «Io e Fabrizio eravamo, direi senza saperlo, due veri creativi e lo abbiamo poi dimostrato nella vita". Anche in ambito televisivo Paolo Villaggio ha dato contributi di rilievo sia nei panni di presentatore sia in quelli di artista, lanciando sul finire degli anni sessanta programmi dal contenuto sperimentale e innovativo.

Fantozzi, la nuvoletta e il congiuntivo

Ma quello che resta impresso nel pubblico è il suo Fantozzi esilarante, la nuovoletta dello sfigato, pantalone e mutanda ascellari, moglie e figlia quasi 'mostruose'. La saga del ragionier Ugo Fantozzi ha rappresentato il capolavoro di uno dei maestri della comicità italiana. Villaggio raccontò in un'intervista al Corriere della Sera di essersi ispirato ad un dipendente che lavorava in un sottoscala della Cosider: 'Ho conosciuto realmente il ragionier Ugo: si chiamava Bianchi'. Fantozzi è la resistenza strenua che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero. Lo sberleffo nei confronti dell’imbecillità di chi ci comanda. Il famoso anatema di Fantozzi nel film 'La corazzata Potemkin' (è una cagata pazzesca) fa parte del liguaggio dei soprusi e delle trappole che la vita pone davanti alla quotidianità di un uomo semplice e modesto. Ma Fantozzi invece di sfidare quelle avversità le cerca da eroe popolare. Quasi a autocompiacersi in una sorta di masochismo dove l'incontro con la sfortuna è scontato.

Ad un anno dalla morte di Paolo Villaggio la Fondazione Cinema per Roma celebra il genio del comico genovese. Al cinema Savoy, una ventina tra attori, registi, giornalisti e varie personalità si riuniranno per leggere insieme uno dei suoi testi più conosciuti: “ Il secondo tragico libro di Fantozzi “, romanzo pubblicato nel 1974 e rivisitato nel 2015. Si tratta di una raccolta di racconti in cui protagonista è proprio lui, Ugo Fantozzi. Lo sfortunato ragioniere che, in compagnia della moglie Pina e dell’orrenda figlia Mariangela, riceve colpi bassi tutti i giorni dai megadirettori galattici, dai colleghi Filini e Calboni e dalla tremenda signorina Silvani. Il Fantozzi del 'Com’è umano lei', frase che racchiude il senso di un personaggio che si sente così radicalmente in basso da stupirsi che chi sta in alto appartenga anche lui, nonostante la sua importanza, alla specie umana. Quel Fantozzi dei congiuntivi: vadi, venghi, eschi, batti lei. Sì, il congiuntivo, punto debole e al contempo incubo degli italiani. Insomma, anche una caricatura della lingua italiana, in un'Italia che ha visto in lui il suo specchio.

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Margherita Hack, la 'donna delle stelle'

La prima donna a dirigere l'Osservatorio Astronomico di Trieste

"Non sono stata un Einstein. Non ho fatto grandi scoperte. Ho portato, nel mio campo, un contributo al progresso della scienza. E l’ho fatta conoscere soprattutto ai giovani, che sono molto interessati e contenti di imparare qualcosa". Parola di Margherita Hack, astrofisica, accademica e divulgatrice scientifica italiana, scomparsa a Trieste il 29 giugno del 2013. Icona del pensiero libero e dell'anticonformismo, animalista, vegetariana, atea, convinta dell'esistenza degli extraterrestri, ma sempre scettica riguardo agli UFO nei cieli, definendoli "bischerate". Professore ordinario di astronomia all'Università di Trieste dal '64 al '92, è stata la prima donna italiana a dirigere l'Osservatorio Astronomico di Trieste portandolo a rinomanza internazionale.

Margherita era la 'donna delle stelle', anche se il suo approccio con i corpi luminosi della volta celeste era tutt'altro che poetico. Era pragmatico, proprio come era lei. "Capisco che un bel cielo stellato possa essere uno spettacolo meraviglioso, ma come un bel tramonto, come una bella aurora, come un magnifico paesaggio, non a caso l'Unesco ha dichiarato il cielo stellato patrimonio dell'umanità. Ma perché turbarsi?". Un approccio scientifico, alle prese con le stelle e la loro temperatura, densità, composizione chimica. "La gente ci immagina a testa in su che studiamo il cielo con un cannocchiale. Ma quando mai? In realtà stiamo molto più tempo al computer. Anzi: i telescopi moderni sono dei computer su cui i rilevatori elettronici traducono l'intensità delle radiazioni delle stelle esprimendola in numeri".

Margherita Hack e il suo approccio pragmatico con le stelle

La scienza prima di tutto. Così la Hack ha dedicato la sua vita alle stelle, avendo con il firmamento lo stesso approccio che gli entomologi hanno con gli insetti. Nessuna condivisione per la convinzione filosofica nell'affermazione di Kant: "Due cose mi riempiono l'animo di crescente meraviglia e di timore: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me". La legge morale e meraviglia di fronte alle stelle sì, ma non certo il timore: "È sbagliato provare questo senso di annientamento. Anzi: quel che sento io è proprio il contrario. È una grande soddisfazione al pensiero che noi siamo così piccini, viviamo così poco, eppure negli ultimi cento anni siamo riusciti a capire così tanto di astrofisica, c'è stata un'accelerazione incredibile".

Amore per la scienza nel senso più puro del termine, ma anche una curiosità guizzante che solo alcune menti possono avere. "Altri diecimila anni per scoprire cos'è la materia oscura, arrivare al primo istante del big bang, vedere tutte le conseguenze meravigliose che avrà la mappatura del dna". Margherita Hack avrebbe fatto qualsiasi incantesimo o magia pur di avere davanti millenni di conoscenza e possibili scoperte. E alla domanda se dovesse trasferirsi su Marte, pianeta inospitale per eccellenza, la Hack aveva risposto: "Porterei con me Guerra e Pace, la Montagna incantata, Vivaldi, Mozart e Bach. E anche la mia amatissima bicicletta: su Marte sicuramente non c'è traffico". Ironia sottile e pragmatismo, come sempre.

La carriera scintillante della 'donna delle stelle'

Membro delle più prestigiose società fisiche e astronomiche, Margherita Hack è stata anche direttore del Dipartimento di Astronomia dell'Università di Trieste e membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Ha lavorato presso numerosi osservatori americani ed europei ed è stata per lungo tempo membro dei gruppi di lavoro dell'ESA e della NASA. In Italia, con un'intensa opera di promozione, ha ottenuto che la comunità astronomica italiana espandesse la sua attività nell'utilizzo di vari satelliti giungendo ad un livello di fama internazionale. Ha pubblicato numerosi lavori originali su riviste internazionali e numerosi libri sia divulgativi sia a livello universitario.

Margherita Hack, la donna delle stelle

Margherita Hack nel 1978 fondò la rivista bimensile 'L'Astronomia' il cui primo numero vide la luce nel novembre del '79. Poi, insieme con Corrado Lamberti, diresse la rivista di divulgazione scientifica e di cultura astronomica 'Le Stelle'. E ancora, l'asteroide 1995 PC, scoperto da Andrea Boattini e Luciano Tesi, è stato denominato "8558 Hack" dall'Unione Astronomica Internazionale. A raccontare invece la Margherita del privato, è stato spesso l'uomo della sua vita, il marito: "Straniera, si sentiva fiorentina anche se il padre era svizzero. Mi ha colpito fin da quando l’ho incontrata da bambino: era energica, si arrampicava sugli alberi meglio di me, giocava a palla e non si arrendeva mai. Mi piaceva la forza che riusciva a esprimere. Per me lei è sempre stata come Giovanna d’Arco: combattiva, un pò maschile, mai civettuola".

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Bud Spencer, "altrimenti mi arrabbio"

Due anni fa la scomparsa del celebre attore

Bud perché beveva la birra Budweiser, Spencer perché aveva una vera e propria adorazione per Spencer Tracy. Bud Spencer, pseudonimo di Carlo Pedersoli, incoronato dalla rivista americana Time come l'attore italiano più famoso al mondo, è stato un vero fuoriclasse tra talento e risate. Due anni fa, il 27 giugno del 2016, l'attore e prima ancora nuotatore olimpionico, è scomparso all'età di 86 anni nella sua casa romana. Lui che aveva detto qualche anno prima di non temere la morte, ma di guardarla con curiosità. La sua filosofia di vita, da buon napoletano, racchiusa in una frase che gli piaceva ricordare: "Futtetenne", ovvero fregatene. E ridici su. E Bud era un vero campione della risata, in un'accoppiata fortunata e vincente con Terence Hill. Tanto che la celebre coppia ha ottenuto fama mondiale e attirato milioni di spettatori al cinema, ricevendo nel 2010 il David di Donatello alla carriera.

Bud non è stato solo un attore brillante molto amato nel mondo, ma ha avuto innumerevoli talenti. Nel corso della carriera da nuotatore è stato il primo italiano, nel '50, a scendere sotto il minuto nei cento metri stile libero, collezionando poi numerose vittorie. L'indimenticabile interprete di Piedone l’Africano ha anche conseguito diversi brevetti per diventare un pilota di linea e di elicottero (folgorato dal volo dopo il film 'Più forte ragazzi'). E ancora, la passione per la musica. Nel film 'Lo chiamavano Buldozer' canta per la prima volta in scena. Un anno dopo interpreta un tema nella colonna sonora di 'Io sto con gli ippopotami'. Infine, nel 2010, una nuova carriera come scrittore. Produce un’autobiografia dal titolo evocativo 'Altrimenti mi arrabbio'. Due anni dopo, un secondo libro intitolato 'Ottant’anni in giro per il mondo – la seconda parte della mia autobiografia', e infine 'Mangio ergo sum', dove racconta degli incubi dopo una dieta forzata.

Il successo internazionale di Bud Spencer

Il gigante buono dal pugno facile ha interpretato ben diciotto film con Terence Hill, dei quali 16 come coppia protagonista. Con loro ebbe inizio negli anni Settanta la saga degli 'spaghetti western' da 'Dio perdona io no'. Grande coppia al cinema, grande amicizia. “Con Bud c’era la gioia e so già che quando ci rincontreremo le prime parole che mi dirà saranno ‘noi non abbiamo mai litigato!'”, aveva detto commosso Terence Hill al funerale di Bud Spencer. Quelle stesse parole sono state immortalate ai piedi della statua di bronzo di due metri e quaranta costruita sulla Corvin Promenade di Budapest dedicata a Piedone, definita dai suoi artefici "il primo monumento al mondo" a Carlo Pedersoli. Sempre a Budapest (in Ungheria Bud è sempre stato un personaggio di culto fin dagli anni '60, quando sotto il regime comunista rappresentava un simbolo di libertà accessibile), gli è stato intitolato un parco naturale: il Bud Spencer Park.

Anche in Germania il suo nome ha raggiunto una fama indiscussa. Tanto che è stato coniato il verbo 'sich budspenceren', traducibile in italiano come 'picchiare come Bud Spencer'. Un successo incredibile che ha varcato i confini internazionali, per un attore che sapeva parlare sei lingue: italiano, inglese, spagnolo, francese, portoghese e tedesco. Nel '99, pochi giorni dopo il trionfo di Roberto Benigni a Los Angeles nella notte degli Oscar per 'La vita è bella', il Time, sulla scia dell'evento, pubblicò una classifica degli attori italiani più famosi del mondo nella quale Bud Spencer occupava il primo posto, seguito da Terence Hill. Nonostante ciò, rivelerà in seguito l'amarezza per essere stato quasi sempre snobbato dalla critica cinematografica. "In Italia io e Terence Hill semplicemente non esistiamo - disse -, nonostante la grande popolarità che abbiamo anche oggi tra i bambini e i più giovani".

Da oggi una statua in onore di 'Piedone' ai Quartieri Spagnoli

A due anni dalla scomparsa dell'indimenticato interprete di successi come 'Lo chiamavano Trinità', 'Altrimenti ci arrabbiamo', 'Piedone lo Sbirro', e nell’anno della morte di Ermanno Olmi, regista con cui Bud aveva girato il suo penultimo film – Cantando dietro i paraventi -, la sua Napoli lo ricorda. Oggi ai Quartieri Spagnoli verrà presentata infatti la scultura lignea Bud, uno stencil intarsiato e con varie sfumature di colore rosso, simboleggianti il magma che fuoriesce dai classici mattoncini di tufo napoletano. Un’installazione nata dall'idea dell'artista Mario Schiano, che rende omaggio alla città partenopea (i richiami sono la lava, il Vesuvio, la pietra tufacea) e a un personaggio altrettanto vulcanico. Attore, cantante, atleta, scrittore, Bud Spencer non era un semplice ambasciatore di Napoli nel mondo, ma un uomo poliedrico dai mille talenti e dalla versatilità unica.

Era tifossissimo del Napoli e simpatizzante della Lazio. Sposato fin dal 1960 con Maria Amato, la coppia ha avuto tre figli: Giuseppe, Cristiana e Diamante. Era alto 193 centimetri, portava il 47 di piede e non è mai sceso sotto i 100 chilogrammi di peso, arrivando a toccare addirittura i 152 chili. Un vero e proprio gigante buono. Una stazza da gigante e gli occhi stretti come fessure, che gli regalavano un aspetto da duro. Diceva di distinguere due tipi di successo: quello che "ho avuto nello sport e quello nel cinema. Il primo è mio e non me lo leva nessuno. Il secondo è quello che il pubblico ha deciso di darmi e che mi ha permesso di fare 120 film".

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Fanfara e piume al vento, stanno arrivando i Bersaglieri

I Bersaglieri compiono 182 anni

L'inseparabile fanfara, il cappello piumato e l'inconfondibile colore cremisi del 'fez', il copricapo con la nappa azzurra dondolante. Fate largo, stanno arrivando i Bersaglieri. L'unica banda al mondo ad esibirsi a passo di corsa. Specialità della fanteria dell'Esercito italiano nata il 18 giugno del 1836 su proposta del capitano Alessandro Ferrero della Marmora, istituita dal re Carlo Alberto di Savoia. Una corsa quella dei 'fanti piumati', legata secondo la tradizione popolare alla breccia di Porta Pia. L'ingresso a Roma, che doveva avvenire a passo di carica, divenne spontaneamente una corsa dei soldati. Ma il primo battesimo del fuoco, per quella fanteria leggera dall'inedita velocità e versatilità, fu l'8 aprile 1848. Nella battaglia di Goito durante la prima guerra di indipendenza italiana. Dotato di ampia autonomia operativa, il corpo era formato da uomini addestrati alla corsa ed al tiro con moderni fucili a retrocarica. Pronti a sconvolgere i piani dell'avversario, con azioni di disturbo o in contrasto alla cavalleria per romperne la carica.

Ma quello che contraddistingue i fanti con la fanfara è il cappello piumato o vaira, in onore di Giuseppe Vayra che per primo vestì la divisa del corpo. Anche nella Marcia ufficiale dei Bersaglieri (la versione 'Flik Flok' riarrangiata e suonata oggi) che 'Vanno rapidi e leggeri quando il vento sul cappello fa le piume svolazzar', c'è un accenno a questo particolare emblematico della divisa. Quel cappello che si porta inclinato sul lato destro in modo da tagliare a metà il sopracciglio fino a coprire il lobo dell'orecchio. Il piumetto è composto di penne spesso naturali, per lo più quelle di cappone nero anziché quelle rare di gallo cedrone, come erroneamente si è spesso creduto, trattandosi di una specie protetta. E ancora, il cappello circolare ed ampio all'inizio veniva usato come protezione dal sole per l'occhio destro, quello che aveva il compito di mirare. Infatti, quasi tutti i cacciatori dei vari eserciti, all'epoca della formazione del corpo, ricoprivano il berretto di penne e pennacchi.

La storia dei bersaglieri nei particolari della divisa

Quella corsa dei Bersaglieri che ha attraversato secoli, mode ed epoche, è impressa anche nel loro fregio. In metallo, di colore oro: bomba da granatiere con fiamma a sette lingue, cornetta da cacciatore e due carabine intrecciate. La particolarità del trofeo è la fiamma, che non sale dritta come per le altre armi, ma è inclinata e fuggente. Un richiamo indubbio alla corsa dei bersaglieri. Altro inseparabile accessorio dei fanti piumati è il fez, il copricapo color cremisi con la 'ricciolina', la nappa azzurra con il cordoncino che dondola da una spalla all'altra. Il nome fez ha la sua origine in Marocco, ma i Bersaglieri lo incontrarono in Crimea (1855). Qui gli Zuavi, reparti speciali del Corpo di spedizione francese, entusiasmati dal valore dei Bersaglieri dimostrato nella battaglia della Cernaia, offrirono il loro copricapo in segno di ammirazione. Dopo la vaira piumata il fez diventò, ed è tuttora, un elemento tipico del Corpo.

Il regolamento disciplina il trattamento del fez: non dev'essere riposto in tasca, né arrotolato in mano, né piegato sotto la spallina. Il colore è quello storico, il cremisi, che comparve nelle mostreggiature e filettature della prima giubba di panno azzurro-nero della truppa, e nelle spalline, colletto, bande e manopole degli Ufficiali. Oggi è conservato nelle fiamme. A Torino, nel 2011, fu presentato un nuovo basco nero che prese il posto del tradizionale fez, che resta il copricapo per la truppa. I guanti neri vennero adottati invece, nel 1839, a soli tre anni dalla fondazione del Corpo a simboleggiare lo sprezzo della morte. La Marmora li volle così perché quelli sperimentati nello stesso anno, blu scuro come la divisa, perdevano il colore. Inoltre all'epoca il guanto calzato era un segno di classe signorile.

Non c'è sfliata senza fanfara per i bersaglieri di La Marmora

Non c'è sfilata senza la fanfara, nata con la prima compagnia di Bersaglieri, il primo luglio del 1836. Quando i fanti piumati per la prima volta uscirono dalla caserma Ceppi di Torino al suono di questi festosi strumenti musicali. Lo scrittore Quarenghi definì la fanfara 'una marcia allegra, vivace e tale da far venire la voglia di correre anche agli sciancati'. Il suonatore di fanfara, infatti, è addestrato a suonare a pieni polmoni e a passo di corsa, poiché deve essere ascoltato da tutto il reparto. Da Statuto, i Bersaglieri non possono eseguire una sfilata in mancanza della fanfara. Inizialmente per ogni compagnia erano previste tredici trombette e un caporale trombettiere. Ma con il tempo si sono aggiunti altri strumenti a fiato.

Con la carabina sulla spalla sinistra e con i corni da caccia nella destra, tutti insieme, i Bersaglieri ricordano la presa di Roma il 20 settembre 1870. Quando attraverso la breccia di Porta Pia, entrarono in città e misero fine al potere temporale del papato. 'Niente resiste al bersagliere', sta scritto a chiare lettere sul monumento a Porta Pia. Perché 'i Bersaglieri di La Marmora', come vennero soprannominati alla nascita del corpo, rimangono il simbolo dell’epopea risorgimentale, ma anche dei conflitti mondiali. Non si può fare a meno di ricordare una compagna inseparabile di quegli anni a cavallo delle due guerre: la bicicletta, con tanto di porta sciabola anteriore e borsetta porta attrezzi sotto la sella. Scomparve nella seconda guerra mondiale dopo 45 anni, nel ricordo del sacrificio dei battaglioni piumati dei ciclisti del primo conflitto. Al bersagliere immortalato nella sua corsa perenne a Porta Pia, e a tutti i Bersaglieri (con un'allusione in particolare ai ciclisti) sono dedicati i versi di Gabriele d'Annunzio: 'La mia ruota in ogni raggio è temprata dal coraggio. E sul cerchio, in piedi splende la Fortuna senza bende'.

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Giacomo Agostini, il 'cannibale' del motomondiale

'Ago' spegne 76 candeline

"Non posso credere che Agostini sia un essere umano", esclamò Kenny Roberts dopo essere stato battuto con ampio distacco da 'Ago', alla 200 miglia di Daytona del '74. Non aveva ancora capito di avere a che fare con la leggenda del motociclismo, Giacomo Agostini. Soprannominato il 'cannibale' del motomondiale per aver scritto la storia dell’agonismo in sella alle due ruote, noto anche per i nomignoli 'Ago' e 'Mino', il pilota bresciano spegne oggi 76 candeline. Il numero uno dei campioni è stato un vero recordman. Nella storia del Campionato Mondiale di Velocità ha conquistato il maggior numero di titoli iridati, vincendo 123 Gran Premi e riuscendo a guadagnare il podio in 163 delle 190 gare disputate. Un palmarès d'eccezione e unico nel suo genere, con diciotto titoli nazionali, per un totale di 311 vittorie in gare ufficiali. Una vocazione, quella per il mondo dei motori, iniziata fin da bambino.

Giacomo Agostini, il 'cannibale' del motomondiale

A nove anni 'Ago' era già in sella al 'Galletto' della Guzzi, rubato in garage all'insaputa del padre. Ma non toccando ancora con i piedi a terra, cadde rovinosamente. La passione per il mondo delle moto era però inarrestabile, nonostante la ferma contrarietà del padre. Poi, in sella all'Aquilotto della Bianchi, tra le gare clandestine sulle strade sterrate del Lago d'Iseo e le gincane delle sagre paesane, era diventato un vero mago delle due ruote. Pronto a gareggiare. Il momento arrivò a 18 anni, età minima allora prevista in Italia per l'iscrizione alle gare ufficiali, previa autorizzazione paterna. Autorizzazione che 'Ago' riuscì a ottenere grazie a una divertente commedia degli equivoci. Il padre chiese un parere al notaio di famiglia, tanto saggio quanto sordo, che capendo bicicletta al posto di motocicletta, sentenziò: "Dai firma. Fagli fare dello sport, che fa bene e tiene lontani da distrazioni e pericoli". E così fu.

Dalla Morini alla Yamaha, le vittorie di Giacomo Agostini

Era il 1961 quando Giacomo Agostini riuscì ad avere la moto dei suoi sogni: una Morini 175 Settebello. La prima gara ufficiale, a cui partecipò con la fiammante Settebello portando i colori del Moto Club Costa Volpino, fu la gara in salita Trento-Bondone, dove si classificò secondo, alle spalle del celebre 'Scoiattolo della montagna'. Al secolo Attilio Damiani, campione italiano in carica considerato imbattibile nelle cronoscalate. Ma alla Bologna-San Luca, Agostini vinse a tempo di record, conquistando il primo posto assoluto. Alfonso Morini, che era tra gli spettatori, restò colpito da quella vittoria. La sera stessa si presentò nella pensione dove alloggiava 'Ago', offrendogli una moto ufficiale e un ingaggio per la Squadra Corse. Vittoria dopo vittoria con la Morini, il campione approdò poi alla MV Agusta. Era il '65, anno del motomondiale dove il 'cannibale' poté competere nelle classi 350 e 500, arrivando secondo in entrambe.

Fu solo l'inizio del binomio vincente Ago-MV, che in pochi anni conquistò 82 dei 102 gran premi disputati nelle classi 350 e 500. Nonostante gli sforzi tecnici di molti costruttori come Benelli, Kawasaki, Suzuki e Yamaha, quel binomio non fu scalfito. Fino al '74, anno dell'esordio sportivo con la Yamaha alla 200 miglia di Daytona, in Florida. Un esordio accompagnato da reazioni piuttosto sgradevoli da parte della stampa statunitense che incensava i piloti locali e apostrofava Agostini con epiteti taglienti. Come 'Ago-Daisy' (Ago la margherita), riferendosi alla sua fama di playboy, o apertamente razzisti come 'Ago-Dago', magnificando invece le funamboliche qualità del campione USA Kenny Roberts. Che pronosticò "Agostini non conosce il circuito e non conosce la sua moto; me lo mangerò tutto crudo". A divorare Roberts, con una prova di resistenza notevole, fu invece quel pilota italiano che aveva ignorato quelle provocazioni dimostrando la sua forza indiscussa.

Gli aneddoti del campione che voleva diventare il migliore

Giacomo Agostini, la leggenda indiscussa delle due ruote passata poi nel '78 alle quattro ruote, ha concluso la sua carriera come direttore sportivo del Team Marlboro-Yamaha. In questa veste ha conosciuto la donna della sua vita dalla quale ha avuto due figli. Una carriera scintillante, costellata di successi adrenalinici, flirt in prima pagina sui rotocalchi rosa. Divo di fotoromanzi, attore e testimonial per importanti aziende. Il primo ad investire su se stesso, ad avere una tuta sponsorizzata. Un idolo, sfrontato sulle due ruote in quelle foto patinate anni Sessanta in bianco e nero, ma pieno di aneddoti che lo raccontano davvero. 'Ago', un pilota particolarmente devoto al culto mariano, che faceva inserire nell'imbottitura del proprio casco una medaglietta della Madonna di Lourdes. Che nonostante la passione per le donne, adottava un comportamento 'monastico' prima di ogni gara. In totale astinenza da passioni amorose e alcoliche, pernottava in albergo per restare lontano dalle notti animate del Continental Circus.

Una clausura pre-gara che aveva un precedente ben preciso. All'inizio della carriera, nella gara della Temporada Romagnola di Cesenatico del '62, dopo una notte piuttosto movimentata, il futuro campione iridato non ebbe la sufficiente energia e lucidità per mantenere il ritmo impostato all'inizio. Uscì di pista danneggiando la moto e compromettendo il risultato, oltre al rischio di pesanti conseguenze fisiche. Non accadde più, perchè voleva diventare il migliore. "Andavo più forte degli altri perché ho assecondato un talento che mi ha dato madre natura. Magari molti altri lo avevano, ma devi avere anche il coraggio di credere nel tuo talento. Vuol dire che se scegli di provare a diventare il migliore devi sapere che non puoi fare tardi la sera, bere, avere ogni sera una donna diversa. Devi prenderti la responsabilità di credere nel tuo talento e di sacrificare molte cose per esso". Parola di Giacomo Agostini, il 'cannibale' del motomondiale.

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

James Hunt: l'angelo ribelle e la 'parabola del pilota'

James Hunt e la 'parabola del pilota' a 25 anni dalla scomparsa

Dalla fame di vittoria all'inesorabile declino, come nella 'parabola del pilota' raccontata da Enzo Ferrari. Così è stato per James Hunt, il pilota automobilistico inglese, vincitore del campionato mondiale di Formula 1 nel '76, scomparso a soli 45 anni il 15 giugno di venticinque anni fa. Soprannominato Hunt 'The Shunt', ossia Hunt 'Lo schianto', per i suoi frequenti incidenti e la sua vita spavalda sia in pista che fuori, James era bello e impossibile. Un vero 'schianto' come si suol dire per i playboy come lui. Un viso d'angelo imprigionato in un'anima ribelle, irruenta e anticonformista. Ha corso per la maggior parte della sua carriera in Formula 1 (i migliori risultati li ha ottenuti in McLaren), vincendo dieci Gran Premi e un titolo mondiale per un solo punto di scarto sul ferrarista Niki Lauda. In pista non vi era indulgenza fra i due piloti, ma fuori Hunt e Lauda erano molto amici. Una rivalità agonistica raccontata in 'Rush', film pluripremiato del 2013.

James Hunt: l'angelo ribelle e la 'parabola del pilota'

La carriera di James Hunt ha seguito tra rettilinei, curve e percorsi adrenalinici la cosiddetta 'parabola del pilota'. Enzo Ferrari nel suo libro 'Piloti, che gente!', ha indicato la vita agonistica di James Hunt come perfetto esempio per spiegare questa teoria. Il pilota "prima affamato di vittoria, che spende ogni grammo di energia per raggiungere l'ambito obiettivo, superando spesso i limiti evidenti del mezzo meccanico e in una specie di trance agonistica raggiunge la vittoria mondiale. Ma poi, logorato dalla fama e dagli impegni sempre più pressanti perde quel tocco magico e si avvia prima o dopo a un lento ma inesorabile declino. Fin quando decide di dire basta e ritirarsi". Shunt ha deciso di dire addio alle corse automobilistiche a soli trentuno anni, diventando poi commentatore televisivo per la BBC fino alla sua morte, stroncato da un infarto nella sua casa di Londra, a soli 45 anni.

Dalle Mini alla Formula1, storia di un angelo ribelle

Amante dello sport a trecentossessanta gradi, James Hunt ha particato molte discipline tra calcio, tennis e cricket. Inquieto e ribelle fin da bambino: il suo primo approccio con i motori, a dieci anni, alla guida di un trattore in una fattoria del Galles, mentre era in vacanza con la famiglia. Fu per lui una vera frustrazione non avere la forza necessaria per cambiare la marcia. Ma le sfide per lui erano appena cominciate. Una settimana dopo il suo diciassettesimo compleanno prese la patente, e con il volante fu amore a prima vista. Hunt cominciò la sua carriera da pilota nelle corse con le Mini. Si iscrisse per la prima volta in una competizione a Snetterton, ma i commissari di gara, giudicando la sua vettura irregolare, gli impedirono di partecipare. Niente paura, Hunt voleva correre e non si arrese. Si mise a lavorare per una compagnia telefonica per procurarsi i soldi per partecipare alle gare.

James Hunt: l'angelo ribelle e la 'parabola del pilota'

Il 10 agosto del '69, a Mallory Park, fece il suo debutto nel campionato inglese di Formula 3. Quattro anni più tardi il suo battesimo in Formula 1 al Gran Premio di Monaco. Nel '76 si aggiudicò il titolo di campione del mondo di Formula 1. L'anno successivo altre vittorie in Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone. Ma la sua parabola in pista stava per finire. Nel '79 passò alla Wolf in cerca di rilancio. Sperava di poter competere, se non per la vittoria del titolo mondiale, almeno per la conquista di qualche gara. Ma la WR7, con cui la scuderia canadese intendeva disputare la stagione, si rivelò scarsamente competitiva e molto difficoltosa nella messa a punto. Sempre più demotivato di gara in gara, alla vigilia del Gran Premio del Sudafrica, il pilota inglese annunciò il suo ritiro a fine anno, salvo poi anticiparla al termine della corsa di Monaco. Un addio al vetriolo: "Lascio ora e definitivamente perché nel mondo della F1 l'uomo non conta più!", disse in un'intervista.

James Hunt e il suo vivere ogni giorno come fosse l'ultimo

Spesso al centro di critiche per il suo stile di vita controverso, come alcuni eventi che lo videro protagonista nelle corse, per la sua fama di playboy e per l'abuso di alcol. Per il suo essere anticonformista, come quando camminava a piedi nudi prima dell'inizio di ogni evento. Ma chi lo ha conosciuto davvero dice di sapere che Shunt non poteva essere altrimenti. Sempre al massimo, sempre al limite. Nel film 'Rush' colpisce una sua frase, che è l'essenza del personaggio: "Mi chiamo James Hunt. Ho una teoria sul motivo per cui alle donne piacciono i piloti. Non è una questione di rispetto per quello che facciamo, girare intorno con una macchina per ore e ore, anzi, loro pensano che siamo patetici. Probabilmente hanno ragione. È per la nostra vicinanza alla morte. Perché più sei vicino alla morte e più ti senti vivo. E più sei vivo. E loro questo lo vedono, lo sentono".

James Hunt: l'angelo ribelle e la 'parabola del pilota'

Il suo vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Lo sa bene Niki Lauda, che attraverso quel film che racconta la loro finta rivalità, parla di Shunt: "Per James vincere un campionato era stato sufficiente. Aveva dimostrato quello che voleva dimostrare. A se stesso, e a tutti quelli che dubitavano di lui. E due anni dopo si ritirò. Quando lo rincontrai, sette anni dopo, a Londra, io di nuovo campione e lui commentatore per la tv, era scalzo, su una bici, con una ruota a terra. Viveva ancora ogni giorno come se fosse l'ultimo. Quando seppi che era morto d'infarto a 45 anni, non ne fui sorpreso. Mi fece solo tristezza. La gente ci ha sempre visti come due rivali, ma lui mi piaceva. Era una delle poche persone che apprezzavo, e una delle pochissime che rispettavo. E ancora oggi rimane l'unico che abbia mai invidiato".

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Giacomo Leopardi, storia di un giovane favoloso

Giacomo Leopardi, quasi due secoli senza il poeta di Recanati

Giorgio Gaber cantava in una canzone che l'Italia è il luogo 'dove i poeti sono nati tutti a Recanati'. Per celebrare il poeta dei poeti, Giacomo Leopardi, e la cittadina marchigiana incoronata 'città della poesia', che ancora oggi è meta di viaggiatori ansiosi di percorrere i luoghi del cuore del 'giovane favoloso'. A cominciare da Palazzo Leopardi, la casa natale del poeta scomparso quasi due secoli fa, il 14 giugno del 1837, a soli trentanove anni. Una dimora storica dal valore inestimabile,  tuttora abitata dai discendenti del poeta e aperta al pubblico. Luogo pieno di suggestioni che ha il suo fulcro al primo piano del palazzo, nell'antica biblioteca che si affaccia sulla piazza del 'sabato del villaggio'. Tra gli oltre ventimila volumi raccolti dal padre di Giacomo, il conte Monaldo Leopardi, impossibile non ammirare la veduta della piazzetta dove si trova la casa di 'Silvia', protagonista di una famosa lirica.

Giacomo Leopardi, storia di un giovane favoloso

E una volta terminato il tour del palazzo, proseguendo tra i luoghi del cuore del poeta marchigiano, non si può non passare di fronte alla Torre del Passero Solitario, visibile nel cortile del chiostro di Sant'Agostino, decapitata da un fulmine e resa celebre dai versi di una delle sue composizioni più amate. Le lancette del tempo sembrano tornare indietro, anzi si fermano, di fronte al colle dell'Infinito, sulla sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne. Uno scorcio dai colori e profumi suggestivi, che ispirò l'omonima poesia composta da Leopardi a soli 21 anni. In ogni angolo della città dell'infinito, protagonista qualche anno fa anche di uno spot con Dustin Hoffman, si respirano i versi di colui che è ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale e del romanticismo letterario. Un poeta filosofo, grazie alla profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umana.

Elio Germano: "Giacomo era uno scienziato dell'anima"

I luoghi leopardiani e la vita di Giacomo Leropardi sono stati racchiusi nel film del 2014, 'Il giovane favoloso', diretto da Mario Martone e interpretato da Elio Germano. Presentato in concorso alla 71ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, il film è stato girato per gran parte a Recanati, nella casa di origine e nella famosa biblioteca di Leopardi. La produzione ha avuto l'autorizzazione degli eredi a girare in Casa Leopardi e in luoghi simbolo della vita di quel giovane favoloso. Non solo, il conte Vanni Leopardi, ha interpretato un cameo come cocchiere. L'impresa di Germano, come lui stesso ha raccontato, è stata quella di affrontare Leopardi solo in modo parziale, di fronte a un materiale enorme. "Non il materiale biografico ma di vita interiore espressa attraverso la sua opera. Giacomo, con la sua enorme voglia di vivere, era uno scienziato dell’anima. E dico che il film è riuscito perché è così aperto. Perché va lì dove lui ha abitato: l’anima, non la realtà".

Giacomo Leopardi, storia di un giovane favoloso

Nelle scene del film pluripremiato rivive il mito del grande poeta, tra talento inimitabile, dubbi e problemi di salute. Poi il grande turbamento per la morte di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di famiglia, simbolo di speranza e spensieratezza, a cui dedica la poesia 'A Silvia'. I suoi viaggi: a ventiquattro anni lascia Recanati, ma nel frattempo la sua salute, già cagionevole, peggiora. A Firenze conosce Antonio Ranieri, un nobile napoletano che diventerà il suo migliore amico e con il quale condivide alloggio e salotti mentre continua a dare alle stampe le sue opere di poesia e prosa. Poi il periodo di Roma e infine Napoli, l'ultima parentesi della vita di Giacomo Leopardi. Scoppia il colera: Giacomo e Ranieri si trasferiscono in una delle ville di campagna che sorgono alle pendici del Vesuvio, divenuta poi Villa delle Ginestre. Qui infatti, prima di morire, il poeta troverà ispirazione per scrivere 'La ginestra'.

I capolavori di Giacomo Leopardi

Il 14 giugno di 181 anni fa è calato il sipario sul poeta dei poeti, autore di autentici capolavori. Dai Canti, considerati l'eccellenza di Leopardi, con trentaquattro liriche dove spiccano Il passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio. E poi L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica leopardiana. Ancora, lo Zibaldone di pensieri, una raccolta di 4526 pagine autografe contenenti brevi scritti sugli argomenti più vari. E che dire delle Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, un "libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici". Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto di studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente.

Giacomo Leopardi, storia di un giovane favoloso

Dallo 'studio matto e disperatissimo' coniato nello Zibaldone al 'naufragar m'è dolce in questo mare' contenuto nei versi de l'Infinito. Fino a 'passata è la tempesta', dalla poesia 'La quiete dopo la tempesta' a migliaia di citazioni attuali. Noto per il pessimismo leopardiano, il poeta di Recanati lascia tutt'altro che pessimismo tra le sue righe. Nelle parole dello scrittore e filosofo Francesco De Sanctis, un ritratto autentico: "Leopardi non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti". Pessimismo e malinconia? Il messaggio invece leggendo bene sembra essere l'opposto. Forse. "Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano" disse Leopardi, "perché apre delle possibilità, non certezze. Perché non cerca la fine, ma va verso l'infinito".

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Micol Fontana, la sarta delle dive della 'Dolce vita'

Micol Fontana, la sarta delle dive, scomparsa tre anni fa

Micol Fontana, è stata l'ultima delle tre celebri sorelle della moda italiana nel mondo a raccontare una storia di donne e talento. Scomparsa il 12 giugno di tre anni fa a 101 anni, Micol ha rappresentato con i suoi abiti la classe e la raffinatezza del made in Italy, molto amato dalle dive del cinema e dalle attrici di Hollywood. Gli abiti delle Sorelle Fontana, Micol, Zoe e Giovanna, sono stati indossati da icone che hanno fatto sognare intere generazioni. Ava Gardner, Liz Taylor, Audrey Hepburn, Grace di Monaco, Jacqueline Kennedy. Dopo la morte delle sorelle, Micol ha istituito la Micol Fontana, Fondazione che porta il suo nome ma che raccoglie l'eredità e tutte le esperienze di lavoro con le meravigliose creazioni di alta Moda dell'azienda di famiglia, creata assieme a loro. Le tre sorelle venute da Traversetolo, piccolo paesino tra le colline della provincia di Parma, per diventare l'emblema dell'italian style negli anni Cinquanta.

Micol Fontana, la sarta delle dive della 'Dolce Vita'

Fin da giovane Micol aveva lavorato nella sartoria di famiglia, con le sorelle e la mamma Amabile. Un'altra donna di questa storia tutta italiana, che aveva trasmesso alle figlie la passione per l'ago e filo. Approdata a Roma ancora giovane, con Zoe e Giovanna, Micol aveva mosso i primi passi lavorando in una sartoria. Fino a quando il suo datore di lavoro, rendendosi conto del suo incredibile talento, le aveva affidato il compito di confezionare degli abiti da sera per la cliente più prestigiosa della boutique. Fu il trampolino di lancio per fondare Sorelle Fontana, celebre casa di alta moda che ha vestito le più famose dive, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Il grande patrimonio lasciato in eredità dall'Atelier Sorelle Fontana a pochi metri da piazza di Spagna, oggi rivive nella Fondazione Micol Fontana creata nel '94. Abiti, figurini, ricami, accessori, foto e libri, per raccontare questa storia straordinaria ai visitatori.

Il marchio degli abiti delle donne di classe

La storia di Micol, delle sue sorelle e della realizzazione di un sogno iniziato nel '49. In quell'anno le era stata commissionata la creazione dell’abito da sposa per le nozze di Linda Christian e Tyrone Power. Un anno dopo, la conquista del mercato estero, con la diffusione del made in Italy nel mondo. Era stata la Christian a organizzare nel 1950 il primo defilè delle Sorelle Fontana in America, e Micol era stata la madrina di battesimo di sua figlia Romina. Quell'abito da rotocalco di Linda Christian aveva fatto sognare tutte le donne, dive e non. Maria Pia di Savoia, colpita da quello stile unico e raffinato, si era fatta confezionare l’abito nuziale. E che dire di Margaret Truman, figlia del Presidente degli Stati Uniti, che si era fatta creare in modo esclusivo corredo e abito da sposa. In quegli anni le Sorelle Fontana erano approdate fino alla Casa Bianca, invitate per rappresentare l'italian style nella moda mondiale.

Micol Fontana, la sarta delle dive della 'Dolce Vita'

Ultima testimone di quel brand che ha interpretato la Dolce vita, Micol Fontana ha dedicato la sua vita all'alta moda. Anche se amava definirsi 'semplicemente sarta'. Due matrimoni e un'unica figlia avuta dal primo marito, Maria Paola, scomparsa in tenera età per aver contratto accidentalmente il tifo in Calabria, bevendo acqua non potabile. Una tragedia che aveva messo in crisi tutta la sua esistenza: voleva ritirarsi a vita privata e interrompere l'attività, ma grazie all'aiuto dell'uomo che poi sarebbe diventato l'amore della sua vita e dell'amica e attrice Linda Christian, Micol aveva ripreso a lavorare con le sorelle. Anzi, da quel momento era iniziato un nuovo percorso: il rinnovarsi della bottega e della clientela, cominciando a produrre abiti già confezionati in modo tale da permettere a qualsiasi donna di portare un abito con il marchio Sorelle Fontana.

La missione di Micol Fontana, aiutare le donne a essere eleganti

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui

Sua maestà Corrado, il presentatore con la P maiuscola

Corrado, il padre della tv scomparso l'8 giugno del 1999

Nell'ultimo struggente saluto al suo pubblico, disse che i concorrenti della sua 'Corrida' avevano una dote, che non era pazzia, ma autoironia. La stessa che ha sempre contraddistinto, nonostante il suo immenso talento, Corrado Mantoni. Per tutti solo Corrado, la voce della radio italiana, il volto della TV nazionale: conduttore storico, attore, doppiatore, cantante e paroliere italiano. Considerato uno dei padri fondatori della nostra TV, insieme a Mike Bongiorno e Raimondo Vianello, Corrado ci ha lasciato l'8 giugno di diciannove anni fa. Ha lasciato la sua ineguagliabile firma, sia come presentatore che come autore, su molti dei più memorabili programmi televisivi del Belpaese a partire dagli anni Cinquanta, divenendo una presenza fissa e familiare del piccolo schermo e uno dei personaggi più amati di sempre.

Lo ricordiamo tra gli indovinelli e i giochi di parole de 'Il pranzo è servito', o tra i dilettanti allo sbaraglio de 'La Corrida'. Nessuno riesce a non associare il suo volto ai due indimenticabili programmi televisivi. Ma prima ancora, Corrado era in radio. Anzi, era la radio. Considerato il primo conduttore ufficiale della rete nazionale, per oltre quarant'anni è stata la voce del Belpaese. Fu lui che annunciò agli ascoltatori italiani eventi storici come la fine della seconda guerra mondiale o la vittoria della Repubblica al referendum del 2 giugno 1946. Fu anche attore e doppiatore, sulla scia del fratello maggiore Riccardo, con il quale per anni condivise anche lo pseudonimo Corima (ottenuto dalle iniziali dei loro nomi e dal cognome, in seguito utilizzato solo da Corrado), con il quale firmò molti dei suoi più famosi show radiofonici e televisivi.

Nome d'arte Corrado, lo 'scognomato' secondo Totò

A suggerirgli il nome d'arte di Corrado fu il collega Carlo Romano, attore e doppiatore di voci importanti come quella di Jerry Lewis. Da questa sua scelta di utilizzare solo il nome senza il cognome, derivò il soprannome 'lo scognomato' datogli da Totò nella scenetta 'Il premio Nobel'. Grazie alla sua popolarità, nel '49 venne scelto come primo presentatore TV, alla Triennale di Milano, quando le trasmissioni, ancora sperimentali, duravano pochi minuti.  Negli anni Cinquanta, per un decennio, fu l'unico presentatore ufficiale, categoria nata con lui, della radio italiana. Contribuì a lanciare Alberto Sordi e lavorò con Nino Manfredi, definì Claudio Villa 'reuccio' della canzone italiana. Portò i suoi spettacoli nelle piazze e nei teatri. Nella sua compagnia vi furono nomi celebri come Nilla Pizzi, Oreste Lionello e Teddy Reno.

Corrado ha interpretato se stesso in molti film. La prima apparizione, come divo dello spettacolo quale era, fu nel film 'Café Chantant' di Camillo Mastrocinque. Poi prestò il volto e la voce alle pellicole di Luchino Visconti e altri famosi registi, lavorando anche con Marcello Mastroianni, Aldo Fabrizi e Walter Chiari. Fra i successi radiofonici: 'Oplà', in cui sostituì Mario Riva e ne fu subito indicato come erede, per rivelarsi poi nella conduzione di 'Rosso e Nero', programma considerato il padre dei varietà radiotelevisivi italiani. Passò in televisione prima degli anni Sessanta, presentando il sabato sera 'Music Hall', dopo aver sperimentalmente già trasmesso suoi programmi radiofonici in TV, come 'Rosso e nero'. Qui aveva come valletta Sophia Loren, e ospitò tra gli altri Danny Kaye e Gregory Peck.

Corrado, il presentatore con la P maiuscola osannato da tutti

Il presentatore dei presentatori, è stato il volto delle più importanti manifestazioni italiane: concerti, premiazioni, 'Miss Italia'. E poi Canzonissima, dove nel '71 lanciò Raffaella Carrà, il Festival di Sanremo. Inventò e condusse Domenica In. Una carriera scintillante e unica, osannato e amato dal pubblico e da molti celebri addetti ai lavori, da Vittorio De Sica a Totò. Di lui lo scrittore e filosofo Umberto Eco disse: "Corrado è l'Italia, perciò l'Italia lo ama". Fu difeso a spada tratta da Indro Montanelli sul Corriere della Sera quando vi furono interpellanze parlamentari a causa della frase che pronunciò in TV, 'L'Italia è una repubblica fondata sulle cambiali'. E ancora, i suoi indimenticabili duetti con Mike Bongiorno, suo 'amico rivale', nei sette anni in cui a cavallo degli anni Novanta condusse il 'Gran Premio Internazionale dello spettacolo'.

La carriera e la vita di Corrado sono stati intensi. Due matrimoni: il primo con Luciana Guerra da cui ebbe un figlio, Roberto Mantoni, e il secondo con la produttrice e autrice televisiva Marina Donato, la sua compagna di sempre. Si erano conosciuti lavorando nel '72 e il loro sodalizio professionale si trasformò in un solido legame sentimentale. Il 27 giugno del '96, dopo 23 anni di convivenza, si sposarono in Campidoglio. La Donato fu per molti anni produttore del fortunatissimo programma televisivo 'La Corrida' e dal 2002 ne è la curatrice. Proprio dal palco di quella trasmissione, durante l'ultima puntata, Corrado si congedò dagli schermi TV. Era il dicembre del '97, quando il presentatore recitò una poesia di commiato con gli occhi visibilmente lucidi, all'insaputa di tecnici, autori e produttori. Disse che era arrivato il tempo di dare il suo 'commosso benservito'. Un anno e mezzo dopo calò il sipario sulla vita di Corrado.

#socialmediaitaly

 

Abbiamo pubblicato altri articoli che potrebbero essere di tuo interesse. Clicca qui